Il 7 aprile scorso un dodicenne inglese, Archie Battersbee, è stato trovato dalla madre privo di sensi, con una corda intorno al collo, a causa di una sfida in cui il bimbo è incorso su TikTok, un app che sta spopolando tra i giovanissimi. Purtroppo è sempre più frequente e preoccupante il fenomeno di adolescenti istigati ad atti estremi, finanche al suicidio. Archie è solo l’ennesima vittima di questo scempio ed è arrivato alla ribalta della cronaca perché, a seguito di questo fatto, è stato ricoverato al Royal London Hospital di Londra dove è incominciato un calvario legale e morale lungo quattro mesi: da subito i medici dell’ospedale, secondo una prassi comune nel Regno Unito, hanno cercato di convincere la madre di Archie, Hollie Dance, che il figlio fosse “cerebralmente morto” per poter rimuovere i supporti vitali e procedere all’espianto degli organi. Ciononostante, la madre non si è arresa e ha deciso di non sottostare alla follia del sistema sanitario inglese, ormai macchiato del sangue di innumerevoli innocenti.
Ma la prassi inglese è talmente consolidata che i medici avevano già in serbo l’asso nella manica per piegare la volontà della donna: l’Alta Corte. È così che il caso di Archie Battersbee è finito nelle mani del giudice Anthony Hayden, lo stesso uomo che, nel 2018, aveva condannato a morte il piccolo Alfie Evans. La sorte di Archie in tali mani non poteva essere diversa da quella di Alfie. Il giudice ha immediatamente dato ragione ai medici e ha intimato che, “per il miglior interesse” di Archie, era necessario rimuovere la ventilazione e lasciarlo morire soffocato. Ma i genitori di Archie non hanno ceduto e sono arrivati fino all’estremo tentativo di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), nella speranza che potesse intervenire e salvare il figlio. Purtroppo questo organismo sovranazionale molto difficilmente si intromette negli affari delle singole nazioni e così, sabato 6 agosto, alle ore 10 del mattino, i medici (o meglio, gli esecutori) hanno rimosso la ventilazione al bimbo che è rimasto per ben due ore in agonia. Verso mezzogiorno, secondo quanto racconta la zia di Archie, il volto del bambino è divenuto cianotico e a ciò è seguita la morte, quella vera. Non ci sono parole per descrivere la crudeltà di quanto avvenuto: non è stata nemmeno accolta l’ultima richiesta dei parenti di Archie di poterlo trasferire in un hospice perché, ironia della sorte, i medici ritenevano che il viaggio sarebbe potuto essere “fatale” per il bambino.
In questa vicenda confluiscono talmente tante questioni (dal fenomeno delle sfide su internet, alla morte cerebrale, passando per l’eutanasia) che risulta difficile circoscrivere una riflessione omnicomprensiva. In questa sede ci si vuole solo soffermare su un’idea, troppo diffusa: che tutto questo non abbia nulla a che vedere con la pratica eutanasica. Si pensa infatti, erroneamente, che componente imprescindibile dell’eutanasia sarebbe la “libertà” del singolo di poter decidere della propria vita. Non è così. La vera componente imprescindibile dell’atto eutanasico è la deliberata uccisione di un essere umano innocente. Che questo venga poi fatto per “motivi pietosi” e col consenso o meno del malato è solo accidentale. Nel suo libro intitolato “Eutanasia, diritto o delitto?”, il prof. Mario Palmaro ebbe a spiegare la vera sostanza dell’eutanasia. Ma, oltre a questo, ha cristallinamente spiegato come la legalizzazione della pratica eutanasica, in ultima analisi, non abbia nulla a che vedere con la libertà. I motivi principali sono essenzialmente due:
- Il primo riguarda lo Stato che legifera. Nel momento in cui esso legalizza la pratica eutanasica, ostenta solo una falsa neutralità: dal momento che, per ovvi motivi, non può ammettere una totale autonomia dei consociati di disporre della propria vita, indipendentemente dalla propria condizione, deve necessariamente stabilire chi può accedere o no all’eutanasia. Così facendo, inevitabilmente emette un giudizio di valore sulla vita delle persone, stabilendo ad arbitrio l’indegnità o la dignità della vita per chi presenta o meno determinate caratteristiche (es. malattia grave, presenza dei supporti vitali, fase terminale ecc.). In definitiva, la “scelta” del paziente è solo apparente e l’eutanasia più che “dolce morte” è, a tutti gli effetti, un omicidio di Stato.
- Il secondo riguarda il singolo. Il punto d’arrivo del processo eutanasico è perfettamente sintetizzato nella dizione di “miglior interesse”. In una società dove l’omicidio di Stato è legale, la morte diviene via via un “bene” per una persona in determinate condizioni. Al che, non si vede perché ci si debba necessariamente fermare di fronte al suo consenso o a quello dei suoi tutori. Archie è solo l’ultimo tassello di una lunga serie di casi esplicativi in tal senso. Una volta che si rinuncia al principio di indisponibilità della vita umana, ne disporrà sempre chi ricopre una posizione di potere (medici, giudici, Stato): è così che dal “diritto a morire” si giunge al “dovere di morire”, esito naturale del processo eutanasico.
Lo slogan radicale “liberi fino alla fine” si rivela dunque una colossale fake news. Facile parlare alle emozioni delle persone, illudendole d’essere finalmente libere dal “giogo” della legge morale. Questa, lungi dall’essere una costrizione esterna, è piuttosto il recinto che ci impedisce di cadere nel dirupo e auto-distruggerci. Bisogna però uscire dall’emotivismo imperante per capirlo. Si può solo sperare che sacrifici come quello di Archie non siano vani e che possano risvegliare le coscienze assuefatte di una società ormai al collasso.