(di Danilo Quinto) Il 68,2% delle persone povere del Paese risiedono al Sud. E’ questo il dato più inquietante dell’ultimo Rapporto annuale dell’ISTAT, presentato negli scorsi giorni. Al Sud sono povere 23 famiglie su 100, al Nord, 4,9. Anche altri indicatori, sono gravi. Forte è al Sud la dimensione dell’abbandono scolastico nelle scuole secondarie superiori: un iscritto su tre non ha conseguito il diploma, rispetto a meno di uno su quattro nelle altre macro aree.
All’Università si iscrive il 21,7% dei nati negli anni ‘70, contro il 33% del Centro e il 26,1% del Nord. I livelli qualitativi dei servizi sanitari sono inferiori al resto del Paese, nonostante l’enorme dispendio di risorse pubbliche ad essi destinati che costituiscono un’ipoteca sui bilanci delle regioni. Nel 2010, il Servizio sanitario nazionale ha speso 111.168 milioni di euro, pari a 1.833 euro pro capite. A livello regionale, esiste uno scarto di circa 500 euro pro capite tra la provincia autonoma di Bolzano, che spende mediamente 2.191 euro per ogni residente e la Sicilia, che ne spende 1.690. I principali squilibri tra regioni si osservano, in particolare, per i servizi preposti alla presa in carico di pazienti cronici, degli anziani, dei disabili.
La spesa sociale nel 2009 in seguito alla crisi è diminuita dell’1,5%, ma è aumentata del 6% nel Nord-Est, del 4,2% nel Nord-Ovest e del 5% al Centro. Per i servizi sociali i comuni calabresi spendono 26 euro a persona, quelli della Provincia Autonoma di Trento 280 euro. Per i disabili i comuni del Sud spendono otto volte meno di quelli del Nord. I nidi pubblici sono presenti nel 78% dei Comuni del Nord-Est, ma nel 21% di quelli del Sud. La presenza delle organizzazioni criminali nelle quattro regioni di origine (Sicilia, Campania, Calabria e Puglia), è causa di un mancato sviluppo equivalente al 15-20% del PIL delle stesse regioni, nelle quali gli investimenti e le speculazioni mafiose giungono in ogni settore di attività e si confondono sempre più con l’economia legale.
La ricchezza mafiosa viene raccolta attraverso il racket, l’usura, la droga, il gioco illegale e legale, la contraffazione, i traffici di esseri umani, armi e rifiuti e poco si sa su come «viene occultata e investita nell’economia legale e nei circuiti finanziari nazionali ed internazionali» (Fonte: Relazione Commissione Antimafia, approvata nel gennaio 2012). Il 53% dei referenti del sistema Confindustria del Mezzogiorno reputa la propria area territoriale molto insicura e il 42% attribuisce questa insicurezza alla criminalità organizzata e all’ illegalità diffusa. Circa un terzo delle imprese meridionali subisce una qualche influenza delle mafie, con dati che oscillano tra il 53% della Calabria e il 18% della Puglia.
Un meridionale su due non ha un’occupazione e non la cerca regolarmente e le mafie raccolgono l’offerta di lavoro irregolare, «avvalendosi», dice la Relazione, «della loro influenza economica, sociale e politica; o peggio ancora fornendo l’alternativa di una vera e propria occupazione criminale». E’ la zona «grigia» della cosiddetta società civile, quella che desta più preoccupazione, quella formata da «persone generalmente insospettabili e dotate di competenze imprenditoriali, finanziarie, giuridiche, istituzionali e politiche che, nel loro insieme, costituiscono il filtro indispensabile per far passare enormi capitali dall’economia criminale all’economia legale», sostiene la Relazione.
Questo il quadro in cui vive una parte del Paese, al di là della retorica consumata in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. Un’unità che non esiste, che non è mai esistita, proprio perché non si affronta la più importante questione nazionale: la trasformazione del Mezzogiorno da terra di nessuno a occasione di sviluppo dell’intero Paese. (Danilo Quinto)