L’Iran, per estensione geografica e per guerra economica, è il Paese che dopo Cina e Russia più reca danni al mondo libero e ai suoi valori. Mentre però Russia e Cina non hanno una religione da giocare, l’Iran si presenta invece come un blocco teocratico che da più di quarant’anni fronteggia la società aperta.
Più in particolare il regime di Teheran si è specializzato nello spionaggio industriale e nella destabilizzazione dell’Occidente con operazioni di guerre proxy e di disinformazione che lo accostano più alla Russia (schematicamente) che alla Cina, con cui i rapporti sono comunque stretti e mortali. Basta pensare all’erosione dell’autonomia portuale sul Golfo Persico da parte di Pechino.
Per quanto riguarda le proxy wars, l’Iran controlla la Siria e l’Iraq con gruppuscoli gialli, analoghi agli uomini verdi di Putin al lavoro prima della brutale invasione dall’Ucraina.
In Siria, dal 2012, si è andata formando una brigata legata a filo doppio a Hezbollah e alla Quarta divisione dell’esercito (di gestione iraniana) che ora è ufficialmente confluita sotto il pieno dominio dei Pasdaran (Israel National News, 31 luglio 2023). Nell’estate del 2021, questa brigata, nota come Maher al-Assad, ha attaccato direttamente una base americana. Il fatto che ora sia integrata con i Pasdaran lascia intendere bene come la proxy war sia evoluta in dirty war.
La situazione è ancora più grave in Libano considerata la presenza della comunità cristiana. È stato rapinato e assassinato un suo coordinatore, Elias Hasrouni, e nel villaggio cristiano di Kahale, tra Beirut e la valle di Beqaa, un camion di proprietà di Hezbollah, scartando dalla strada, ha ucciso un cristiano (un esempio di dirty war: Adnan Nasser, National Interest, 16 agosto 2023).
Tutti i nuclei iraniani hanno varie etichette: Saraya al Jihad, Saraja Ashura (in Iraq), Saraya Aldifa Alshaabi (in Siria) e chiaramente la libanese Hezbollah. Queste entità possono entrare agevolmente in azione anche in Italia, con nome diverso ma modi d’uso analoghi e tesi alla libanizzazione o frammentazione dell’unità nazionale.
In questo momento poi sono altrettanto pericolose le dichiarazioni di vicinanza allo studente rientrato a Bologna grazie al governo italiano da parte dei Fratelli musulmani. Pericolose perché lo studente non è copto come si tende a far credere ma semmai vicino alla egiziana EIPR fondata nel 2002 per difendere i diritti degli omosessuali e della comunità islamica Bahai (all’arco opposto dei Fratelli musulmani); e anche perché in ottica allargata l’Egitto da cui arriva si sta avviando normalizzare i suoi rapporti con l’Iran: sarà infatti reinserito un ambasciatore egiziano a Teheran mentre sinora era disponibile solo un incaricato d’affari.
Dopo che l’Iran e l’Arabia Saudita hanno ripristinato i propri ambasciatori l’unico attore di alto profilo che rimane da “recuperare” è l’Egitto con cui Teheran ha avuto difficoltà sin dai tempi della rivoluzione e della guerra con l’Iraq.
Storicamente c’è poca sintonia tra i due Paesi anche perché fu Anwar El-Sadat a offrire rifugio allo scià. E l’Egitto non ha dimenticato che a Teheran nominano le strade in onore dell’assassino di Sadat (1981).
Eppure il riavvicinamento è in atto, come ha scritto il professor Albadr Alshateri del National defense college di Abu Dhabi: «L’Iran ha una serie di motivi per un accordo con le potenze della macroregione. Primo, gli Houthi sono semplici pedine sulla scacchiera. L’impegno iraniano nei loro confronti non è come quello in Siria o con Hezbollah. Secondo, l’Iran è stato ripetutamente sotto pressione per il suo programma nucleare che per alcuni ha fini malevoli. Terzo, le ferite all’economia hanno generato una vasta opposizione popolare al regime. Il Paese affronterà presto una transizione nella leadership e le fazioni si stanno già schierando. Nessun governo può gestire due fronti. Una riconciliazione con i corpi politici vicini si presta per un morbido cambio della guardia».
Ma perché il regime di Teheran ha rafforzato la sua politica estera aggressiva con i Pasdaran, anche noti come IRGC o Sepah? Per capirlo facciamo un passo indietro. Durante la presidenza del riformista Khatami (1997-2005), IRGC prese forza per fargli da contrappeso e con Ahmadinejad si è assistito a una vera proliferazione dei Pasdaran nei gangli della politica. Come scrive Afshon Ostovar, docente alla Naval Postgraduate School: «Un presidente i cui obiettivi vanno contro quelli del leader supremo non riuscirà a portare avanti la sua agenda politica; laddove un presidente che si incanala dietro il leader supremo troverà ampio sostegno per le sue iniziative».
John Dour ha scritto nel report dell’agosto 2022 della Georgetown Security Studies che: «l’istituzionalismo della forza dei Quds è continuato negli ultimi anni, a riprova della loro postura sempre più aggressiva nella macroregione. Nel 2021 il neoeletto Presidente Ebrahim Raisi ha nominato diversi ufficiali in servizio dell’IRGC per i massimi incarichi civili. […] In primo luogo, il ministro degli Interni di Raisi è Ahmad Vahidi, ex capo del Quds e attualmente latitante ricercato dall’Interpol per il suo coinvolgimento nel bombardamento a Buenos Aires dell’ambasciata israeliana nel 1994. […] Al vertice economico del presidente Raisi si trova il consigliere Mohsen Rezaei, primo comandante dell’IRGC e capo della divisione intelligence […] il ministro degli Esteri di Raisi, Hossein Amirabdollahian, è un diplomatico di carriera con ben noti legami libanesi, che si prefigge di imporre una politica estera aggressiva e ‘euro-asiatica’».
I Pasdaran sono 12mila e dispongono di 190mila truppe (secondo fonti IISS), metà delle quali coscritti (CIA Wold Fact Book). Vi sono inoltre 150mila unità stanziate nelle 31 province del Paese e a Teheran. Non è da escludere che al cambio di regime riemerga, dopo lenti percorsi carsici, la vena socialista dei Pasdaran più vicina al movimento originario della rivoluzione.
Poi ci sono i Basji che potranno continuare a presentarsi quali garanti dell’ordine più dell’esercito. Attualmente essi sono composti da 540mila unità e tesaurizzano un consenso accumulato nell’ultimo ventennio. Queste frange ideologizzate sono sempre rimaste minoranza pur essendo movimento di massa: 12,6 milioni di membri più 300mila riservisti volontari, donne incluse, mentre le forze mobilizzabili sono 600mila, come scrive il Council on Foreign Relations nell’articolo Iran’s Revolutionary Guards (20 aprile 2023). Esse sono state responsabili, nel giugno 2009, dell’assalto contro chi protestava per gli illeciti che avevano portato all’elezione di Ahmadinejad.
La designazione da parte dell’amministrazione Trump di IRGC come organizzazione terrorista straniera (FTO) era motivata nell’aprile 2019 perché «IRGC partecipa a, finanzia e promuove il terrorismo come mezzo statuale». Sono state fatte delle eccezioni per ufficiali stranieri, industrie e organizzazioni umanitarie che facevano ancora affari con IRGC.
Il nodo più difficile da sciogliere è l’approccio cinese ai porti meridionali dell’Iran dal momento che sono i Pasdaran ad avere la gestione di un’autonoma marina di guerra, separata da quella militare con le sue 18mila unità (20mila secondo CFR) e controllano Hormuz da cui passa un terzo del petrolio non raffinato via mare a livello mondiale. Da ultimo il Pentagono ha considerato di distaccare gruppi armati sulle navi commerciali in transito da Hormuz in risposta all’aggressività iraniana (Defenseone, 4 agosto 2023).
Riassumendo riportiamo i dati elaborati da CFR: 350mila esercito regolare + 18mila marina + 37mila forze aeree + 15mila forze aeree per la difesa. Mentre per IRGC: 150mila forze di terra + 20mila marina + 15mila forze aerospaziali + 600mila Basji. La differenza è netta: tutti numeri destinati a sfarinarsi con i giusti tempi del cambio di regime, che può però essere ostacolato dalla difesa a mosaico «con molti centri delle Guardie Rivoluzionarie e delle forze armate del tutto autonomi per il comando e controllo», come ha scritto l’analista Marco Giaconi. CFR, Financial Times e IISS forniscono infine questi dati aggregati delle forze IRGC dispiegate nel solo Medio Oriente: Afghanistan tra 10 e 15mila; Bahrain non rilevato; Iraq 3 brigate per una media totale di 45mila unità; Libano 45mila unità; Pakistan 3,5mila unità; territori palestinesi 29mila unità; Siria 6mila unità; Yemen 20mila unità. Numeri che fanno capire bene il potenziale dispiegato dagli eredi di quel re persiano che nella sua hybris giunse a frustare il mare. Questa volta non sono solo in gioco i valori di Atene, ma quelli di Gerusalemme e di Roma congiunti ad arco.