(di Dina Nerozzi) I Ministeri della Salute e del Lavoro hanno pubblicato una circolare congiunta per rispondere alle richieste di chiarimenti sulla liceità o meno di eseguire accertamenti sulla positività al test dell’HIV sui lavoratori sia come misura antecedente l’assunzione, sia come esami di routine nel corso della permanenza del lavoratore nella struttura in cui presta la sua opera. http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1010414.pdf . Il documento afferma chiaramente l’impossibilità di eseguire accertamenti per valutare l’eventuale siero-positività dei dipendenti.
L’argomentazione addotta a sostegno della circolare è stata la seguente: le possibilità terapeutiche attualmente disponibili hanno mutato sostanzialmente il quadro prognostico ed epidemiologico dell’infezione da Hiv, ragion per cui non esiste più la necessità di effettuare test diagnostici per valutare l’eventuale presenza della sindrome da AIDS. È il caso di far presente come tutto ciò sia in netta contraddizione con la normativa europea che vede nel principio di prevenzione delle malattie la stella polare della sua azione in campo sanitario e in base alla quale è necessario effettuare test di ogni tipo per ogni malattia, eccezion fatta per l’HIV.
Perché è stato necessario derogare da una direttiva fondamentale della politica sanitaria europea? Per non creare discriminazioni verso persone in cerca di lavoro «in base alla reale o presunta sieropositività» e pertanto a nessuno «deve essere richiesto di effettuare il test Hiv o di rivelare il proprio stato sierologico». Poi, deve essere venuto qualche dubbio sul fatto che la priorità dell’operato di uno Stato sia la salvaguardia della salute dei propri cittadini e dunque si prosegue con l’affermazione della necessità di «considerare la prevenzione della trasmissione dell’Hiv in tutte le sue forme come una priorità fondamentale».Ragion per cui risulta assolutamente prioritario «tutelare i lavoratori che svolgono attività in cui è elevato il rischio di trasmissione dell’Hiv e, a tale scopo, è necessario, laddove sussista un rischio di contagio per esposizione professionale a Hiv e a malattie a esso correlate, come la Tbc, predisporre per i lavoratori specifici programmi di prevenzione». E in particolare deve essere garantito ai lavoratori «un ambiente di lavoro sicuro e salubre, al fine di prevenire la trasmissione dell’Hiv sul luogo di lavoro».
Sembrerebbe di capire che l’AIDS sia una malattia che non desta preoccupazione, mentre bisogna preoccuparsi della tubercolosi, che spesso si trova associata alla sindrome legata all’HIV. Forse è il caso di ricordare agli esperti del Ministero della Salute e del Lavoro che anche per la TBC l’industria farmaceutica ha trovato terapie decisamente più risolutive rispetto ai farmaci retrovirali che sono solo dei palliativi e dunque perché preoccuparsi della TBC se non ci dobbiamo preoccupare dell’AIDS? Sembra di notare un qualche difetto nell’ordinamento logico del discorso sostenuto da parte degli esperti dei Ministeri competenti.
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Se, attualmente, i farmaci retrovirali aiutano le persone affette dalla sindrome di immunodeficienza acquisita a vivere una vita quasi normale, questo non era il caso nel 1990 anno in cui è datata la legge 135 del 1990 che vietava espressamente ai datori di lavoro «l’accertamento di indagini volte ad accertare nei dipendenti o in persone prese in considerazione per l’instaurazione di un rapporto di lavoro l’esistenza di uno stato di sieropositività».Se ne può dedurre che le malattie sessualmente trasmesse sono un argomento politicamente sensibile e un tabù inaffrontabile anche nei pressi del Ministero della Salute. (Dina Nerozzi)