(di Mauro Faverzani) Meglio l’ingovernabilità di un cattivo governo: questa, in estrema sintesi, la prima lettura che si può dare del voto espresso dagli Italiani, chiamati ad eleggere il nuovo Parlamento. Perché un dato è emerso con chiarezza e con estrema evidenza: la Nazione non ne vuol sapere di mandare al potere la Sinistra, né plurale, né variopinta. Nonostante gli ammiccamenti espliciti del Festival di Sanremo e dei mass-media –anche di parte di quelli cattolici-, nonostante sondaggi e previsioni accreditassero come scontata la vittoria, il gruppo Monti-Bersani non ha potuto far altro che smorzare i sorrisi e prender atto della sonora sconfitta di fatto: roba da far impallidire Pirro.
Un primato dello “zero virgola” non è un primato, specie perché tutti gli altri cantano un’altra canzone, dunque l’ipotesi del coro appare impraticabile. Senza tener conto di quanti –tanti, sempre di più…- hanno disertato le urne o votato scheda bianca. Meglio così che ritrovarci il cappio al collo di una legge sull’omofobia entro sei mesi, seguita a ruota da quella sulle “unioni civili” -leggasi “nozze gay”- e da quella sul divorzio breve, come promesso poco prima del voto da un Bersani all’epoca forse ancora gongolante all’idea dell’imminente trionfo. Il che significa due cose, innanzi tutto: che i principi non negoziabili sono stati i “grandi assenti” di queste elezioni, fin dai tempi in cui Casini li estromise espressamente dal palcoscenico della politica; che a questi principi viceversa gli Italiani non intendono rinunciare.
La nostra sarà anche una società corrotta dal germe del relativismo, ma non ancora ai livelli di Zapatero in Spagna o di Hollande in Francia. Ciò di cui il nuovo Parlamento dovrebbe tener debito conto. Ma c’è anche un’altra indicazione, che giunge dalle urne: il popolo ha bocciato l’elefantiaco tecnocraticismo dei burocrati di Bruxelles. Nonostante gli auspici espressi a chiare lettere dalla Merkel (ed, anche qui, da qualche testata cattolica e da qualche nome della gerarchia), il fedelissimo Monti, benché oggi ostenti la politica del sorriso forzato, è uscito più che ridimensionato dal voto, che ha sancito il tramonto dell’europeismo spinto, almeno di quello fondato sulle sole alchimie ragionieristiche della finanza e dell’economia.
Un segnale forte, quello lanciato da un Paese ridotto sul lastrico dalla ricetta del “rigore” ad oltranza; un segnale, che anche in Europa dovrebbe esser colto in tutta la sua portata, perché dei giochetti di Segreterie e Cancellerie molti Stati membri dell’Unione sembra proprio non ne vogliano più sapere. L’Italia è solo l’ultima in ordine di tempo. Ed ora, da una chiamata alle urne che sarebbe forse potuta andare anche meglio, ma che senz’altro e più plausibilmente sarebbe potuta finire peggio, si tratta di ricostruire il tessuto politico ed istituzionale di un Paese, che pare alla fin fine chiedere buon senso, l’altro nome –in fondo- dei principi non negoziabili, da recuperare. (Mauro Faverzani)