(di Tommaso Scandroglio) Di recente “Repubblica” ha indetto una campagna mediatica a favore dell’eutanasia. Ha iniziato con un articolo confessione di un caposala di una settimana fa, poi ha continuato con una lectio di Umberto Veronesi ed infine con una lettera di Corrado Augias in risposta ad un lettore.
Ci soffermiamo sul primo pezzo, perché è un vademecum paradigmatico della propaganda a favore della cosiddetta «dolce morte». «Come possiamo definirla? “Eutanasia silenziosa”. Per noi è un fatto di tutti i giorni. Lo affrontiamo con grande difficoltà, ma sicuri di fare sempre la cosa più giusta», esordisce il caposala Michele (nome di fantasia) dell’ospedale di Careggi di Firenze, molto probabilmente impiegato nel reparto di rianimazione. Ecco un primo ingrediente della strategia mortifera pro-eutanasia: far credere che questa pratica sia diffusa, roba di tutti i giorni (lo ribadisce anche Veronesi nel suo articolo).
Tre obiezioni a questo proposito. Dove sono i dati che comprovano ciò? Quali le fonti? È un disco già sentito. Come prima del varo della 194, la legge che ha introdotto l’aborto procurato nel nostro Paese, si sparavano cifre impossibili sugli aborti clandestini, così ora si continua a ripetere che nelle corsie dei nostri ospedali la Signora con la falce viene invitata anzitempo al capezzale dei moribondi. In secondo luogo spesso il personale addetto in sala rianimazione si astiene giustamente da pratiche che configurerebbero solo accanimento terapeutico.
In questa astensione gli ideologi della morte in camice bianco vogliono vederci un chiaro atto eutanasico. Ma così non è. Infine, anche se gli atti eutanasici fossero assai diffusi, ciò non comporterebbe che dobbiamo giustificarli sotto il profilo morale e legittimarli sotto quello giuridico. Anche furti, rapine, estorsioni, evasioni fiscali sono condotte molto diffuse e – guarda un po’ – clandestine, ma nessuno si sognerebbe mai di renderle legittime.
Ma continuiamo con la lettura dell’articolo di “Repubblica”: «Se teniamo in vita artificialmente un paziente, siamo noi che ci stiamo sostituendo a Dio». Bella scoperta. Ogni azione di cura e guarigione è un prolungamento artificioso della vita di una persona. Un intervento chirurgico per salvare un paziente da un cancro non è un atto artificioso? Ma se il medico non lo fa, finisce nei guai perché non impedire un atto che si ha la possibilità di impedire significa provocarlo. Se il medico si astiene dal salvare una vita, quando potrebbe farlo, significa che ne ha voluto la morte. Significa che ha compiuto un omicidio per tramite di un atto omissivo. E Dio, quel Dio evocato dal caposala, sul Monte Sinai ordinò: «Non uccidere».
Michele lo sa benissimo che quel suo gesto è qualificato dal nostro ordinamento giuridico come omicidio: «dal punto di vista normativo siamo obbligati a nutrire e idratare anche un vegetale. In queste condizioni un paziente può andare avanti per mesi, o anni». Il sig. Michele ha scoperto l’acqua calda: medici ed operatori sanitari sono obbligati a non uccidere una persona, ma a tenerla in vita. Ma allora come fare per staccare la spina? «Avessimo lo scudo del testamento biologico, sarebbe tutto più semplice» risponde il caposala, dando una bella lezione a tutti coloro, anche in casa cattolica, che credono che il testamento biologico o le Dat non siano una porta aperta sull’eutanasia. Poi il giornalista annota: il medico «fa intendere che c’è la possibilità di non accanirsi».
Ben venga, ma in che cosa consiste questo rifiuto dell’accanimento terapeutico? «Ci sono farmaci che tengono su pressione arteriosa e funzionalità respiratorie – commenta il giornalista ‒ smettiamo di darli per esempio – rincara il sig. Michele ‒ Non facciamo più le cosiddette procedure invasive. Se non c’è alcuna possibilità di ripresa, che senso ha?». Ma questo non è rifiuto di accanimento terapeutico, bensì eutanasia. Qualora una terapia sia utile o addirittura indispensabile per vivere, occorre darla. Altrimenti si provoca la morte del paziente.
L’accanimento terapeutico invece si configura quando manca una proporzione tra mezzi impiegati per curare e prospettiva di vita per un paziente terminale. Sottoporre ad esempio un malato oncologico ad una seduta di chemioterapia nell’ultimo giorno di vita, non serve a nulla. Togliere invece dei farmaci necessari per la pressione arteriosa e la ventilazione è sopprimere un essere umano che poteva ancora vivere. Ma – così si intende dalle parole di Michele – non sarebbe vita quella di un paziente in coma o in stato di incoscienza persistente.
Il criterio della qualità della vita dovrebbe essere la stella polare del buon medico secondo il Michele di “Repubblica” ed infatti questi aggiunge: «Sembrerò crudo, ma un posto letto in un reparto come il mio potrebbe servire a chi ancora, invece, ce la può fare». Insomma curiamo chi può farcela, i malati ma non troppo. Per tutti gli altri c’è pronta la fossa o l’inceneritore. È una delle tante varianti dell’eugenetica: che vivano i migliori. Gli altri sono solo zavorra. (Tommaso Scandroglio)