Quando il Concilio Vaticano II si aprì 60 anni fa, l’11 ottobre 1962, la porzione progressista dell’assemblea, minoritaria, scalpitava. I suoi protagonisti erano pronti, preparati, entusiasti per i cambiamenti rivoluzionari che sarebbero arrivati grazie a papa Giovanni XXIII che aveva deciso di aprire un Concilio per una Chiesa da “svecchiare” attraverso nuovi ed esaltanti obiettivi, soprattutto quello di non condannare più gli errori teologici e gli errori del mondo, ma decisa a coinvolgere e seguire «i segni dei tempi», secolarizzati e anticristiani.
Il tempo, come si suol dire, è «galantuomo», basta esercitare la virtù della pazienza e le cause di quelle decisioni rivoluzionarie hanno portato al fisiologico deraglio dei loro effetti. Nel corso di questi decenni possiamo valutare con cognizione di causa moventi e conseguenze, avendone prova negli stessi protagonisti di quel tempo, che ascoltiamo e leggiamo con grande pietà cristiana. C’è una povertà, una pochezza nel loro esporre che impressiona: sono ex rivoluzionari che si autoglorificavano e che ora sono basiti, non hanno più nulla dire e, a tentoni, brancolano nel buio, cercando appigli che non hanno e scivolano e incespicano sui vetri che hanno rotto.
È una Chiesa mondana in liquefazione, che non ha risposte, non ha nulla da insegnare e si pone nei confronti di tutti, ad esclusione della Chiesa di sempre, nell’atteggiamento “dell’ascolto” fine a se stesso. Le dieci piaghe d’Egitto sono arrivate a Roma e tuttavia, come l’antico faraone dei tempi di Mosè, questi ecclesiastici, con un orgoglio impressionante, si spezzano, ma non si piegano, non fanno autocritica e non si inginocchiano di fronte a Dio, ma di fronte ancora e insensatamente all’uomo.
Tutto ciò lo abbiamo drammaticamente e con un’evidenza straordinaria testato il 6 ottobre scorso, grazie ad un’intervista su Tv2000, ripresa anche da Avvenire, al cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale Italiana (https://www.tv2000.it/blog/2022/10/06/zuppi-a-tv2000-concilio-grande-occasione-per-parlare-alluomo/). Le risposte date a Gennaro Ferrara, conduttore della serata evento, dove è stato coinvolto anche monsignor Luigi Bettazzi, ultimo padre conciliare italiano in vita (gli altri ospiti sono stati: la teologa Simona Segoloni; il giornalista e vaticanista Gian Franco Svidercoschi; Ernesto Preziosi, presidente del Centro studi storici e sociali, il Censes; Roberto Bettazzi, il chitarrista della prima Messa beat in Italia, celebrata il 26 gennaio 1969 nella chiesa di Santa Maria di Cafaggio e filmata dall’Istituto Luce, video pubblicato su YouTube, https://www.youtube.com/watch?v=EHyPQKJBmtQ), sono state balbettanti, zoppicanti, insicure, fumose, carica di forse e verbi al condizionale, senza mai comunque abbandonare la pervicacia di rimanere sulla strada degli errori conciliari, nonostante i frutti di quell’albero. Il titolo dell’incontro è stato «1962-2022: il Concilio del futuro», dove, con grande evidenza è emersa la verità, l’oggettività di ciò che è stato il Concilio, una palafitta di sabbia costruita sulla sabbia.
Il Cardinale è riuscito, negli scarsi 18 minuti e 54 secondi (occupati anche dalle domande e da un inserto documentale di papa Francesco), a dare l’autentico senso di quel Concilio e di ciò che ha prodotto: un disastro, una vera e propria autodistruzione della Chiesa. Ma andiamo nel dettaglio di ciò che è stato detto per “commemorare” – meglio sarebbe dire per affossare – questo 60° anniversario di illusioni e a volte allucinazioni, cavalcate a quell’epoca ed oggi completamente deluse.
Si è partiti dalla sera dell’11 ottobre 1962, giorno in cui Matteo Zuppi festeggiava il suo settimo compleanno. Di quel dì egli non ricorda nulla e dichiara: «Forse mi è arrivata la carezza raccomandata diciamo da papa Giovanni» (il mediatico e mitico «Discorso della Luna). Passa subito alla memoria del padre, quando lavorava all’Osservatore Romano della domenica e si era straordinariamente impegnato al numero della conclusione del Concilio: «lo conservo ancora con tante testimonianze proprio con questa emozione del Concilio della conclusione del Concilio». Poi gli anni Settanta, dove Zuppi è stato acceso protagonista della stagione “primaverile” della Chiesa all’interno della Comunità di Sant’Egidio. Quegli anni, afferma il conduttore, sono stati pieni di speranze, di attese per la Chiesa e per il mondo e, rimanendo nella Chiesa, alla domanda «Quali delle attese da ragazzo Lei trova che siano state esaudite e quali, invece, sono andate deluse?», Zuppi ha così risposto: «Ma, l’attesa forse più esaudita è quella della Parola, in fondo era la scoperta della Parola, della quotidianità della Parola di una Chiesa e di un Vangelo che non restava chiuso nelle sacrestie o nell’ambito sacro, ma che ci accompagnava», quindi, afferma Ferrara, «la lettura personale», e Zuppi avvalora: «Le bibbiette, forse qualcuno forse si ricorderà fiorentine, che erano quelle dell’Editrice Fiorentina, quelle piccole, quelle prime bibbiette piccole» che si portavano negli incontri «era una compagnia, una scoperta, diciamo che di un Vangelo che portavi in tasca, ecco diciamo così», «e forse abbiamo un po’ dimenticato e lo abbiamo lasciato troppo al Lezionario e va benissimo, ma forse più che il Lezionario della domenica o dei giorni feriali dovremmo avere un rapporto personale, diretto con la Parola».
E di cosa è rimasto deluso? «Anche lì una grande scoperta di quegli anni che era la comunità, una dimensione comunitaria…. La Chiesa era comunità… Il rischio è che abbiamo messo la comunità come etichetta, ma lo siamo diventati troppo poco… La Chiesa è diventata troppo poco comunità… troppo individuo… qualche volta… così… che… un rapporto più di organizzazione… più strutturale di quella bellissima scoperta della dimensione di fraternità, di comunione, di famiglia direi che forse non ha cambiato così come poteva e doveva come deve essere la Chiesa».
L’idea della scelta del titolo della serata è stata riferita alla strada indicata nel Concilio e quindi il quesito: «È ancora una strada da percorrere, che significa dire che a noi tocca semplicemente seguire quel tracciato? O se giochiamo con il titolo secondo lei c’è addirittura bisogno di un nuovo Concilio?».
«No, innanzitutto bisogna ancora capirlo, viverlo. Il Concilio… c’è una lettera, c’è ovviamente quello spirito, quell’entusiasmo, quella prospettiva… che dobbiamo ancora mettere in pratica… Tutti i Concili hanno avuto ovviamente delle, dei tempi no… di attuazione, perché la Chiesa essendo un corpo molto complicato… non è mai una linea direttiva, anche nelle stagioni più verticali, non è mai così… un pulsante, qualche cosa che poi scendeva… secondo alcuni anche il Concilio di Trento ancora da qualche parte non è arrivato, quindi figuriamoci… abbiamo ancora tempo, diciamo. Però bisogna… e mi sembra che stiamo vivendo pienamente… quella ricerca».
Dieci anni fa papa Benedetto pronunciò un discorso molto importante in occasione del 50° anniversario in cui disse: «Noi dobbiamo vivere quella sobria ebbrezza del Concilio, segnati anche dalle delusioni che quell’entusiasmo in realtà poi ha causato, meglio… che non hanno saputo realizzare quell’entusiasmo che quella speranza, quell’attesa che il Concilio portava in sé. Ma dobbiamo ripartire da quella… sobria ebrezza, da quella Pentecoste, e lui disse come dobbiamo fare? Metterci in viaggio, rimetterci in viaggio e indicò proprio il cammino di Santiago per dire, guardate, tanti si mettono in viaggio, si mettono in cammino, noi dobbiamo camminare con loro. Mi sembra che quello che stiamo facendo con papa Francesco, proprio perché oggi dobbiamo rivivere quella sobria ebrezza anche con la passione e l’entusiasmo, se vogliamo anche con quell’ingenuità, quella speranza che il Concilio… ha offerto… anche se misuriamo tante difficoltà e abbiamo misurato anche tanti problemi che ci hanno accompagnati in questi anni».
Parliamo, interviene Ferrara, di questo viaggio, un viaggio in avanti, evidentemente. Sostiene Zuppi: «Qualcuno preferirebbe andare indietro» e, fra una risatina e l’altra, afferma il Cardinale: «Auguri… in genere… comunque la vita va avanti». Spontaneo giunge un nostro quesito: «Avanti, avendo smarrito la strada e continuando a brancolare nel buio?».
Ricorda Gennaro Ferrara che in una recente intervista a L’Osservatore Romano, il Cardinale ha detto che non bisogna avere nostalgia della Cristianità, bisogna superare la logica dei numeri, bisogna guardare alla sete e non lamentarsi del deserto. «Che cosa vuol dire in concreto per la Chiesa italiana questo?». «Ma… eh… significa… diciamo che qualche volta noi ci si sembra… è cambiato tutto, è cambiato tanto… forse arriviamo ad una percezione forte di questo perché fisicamente tante parrocchie cambiano… l’impressione è che… l’idea che comunque sia avevamo tutto sotto controllo, non abbiamo più tutto quanto sotto controllo. In realtà le persone più sensibili questo lo avevano vissuto, l’avevano capito 80 anni fa. Mi colpisce sempre che don Primo Mazzolari ha scritto il libro I lontani nel 1938 e il Papa… Vescovo Montini a Milano aveva attivato una missione popolare proprio perché avvertiva la distanza, la lontananza di intere fasce della popolazione in particolare del mondo operaio. La Francia, Paese di missione, era la grande domanda degli anni 40… questo che dico che c’è una comprensione… avevano intuito già prima del Concilio… il Concilio è stata una grande occasione per mettersi a parlare all’uomo, a dire all’uomo di oggi che il Vangelo non è qualcosa del passato, di quel grande paradigma che Paolo VI aveva indicato che è quello del Samaritano, quella era la grande prospettiva del Concilio. Direi che oggi noi ci ritroviamo a riparlare con tutti, e questa è anche una… facciamo più fatica, misuriamo anche una distanza, ma anche tante domande… che ci… che ritroviamo, forse in una maniera diversa, con delle modalità diverse, che qualche volta ci sembrano anche troppo distanti… che non riusciamo a decifrare pienamente, in realtà mi sembra che la prospettiva dell’Evangelii gaudium è esattamente questa, di metterci in strada a riparlare con tutti per ricapire le tante domande che sono nascoste, che hanno forse delle… che vengono formulate in maniera diversa, ma che ugualmente sono le domande a cui risponde il Vangelo».
Si passa poi al tema della collegialità, una dimensione che si sta vivendo con il Sinodo 2021-2023, sul tema Camminiamo insieme come Chiesa con lo Spirito Santo, titolo che rammenta alla perfezione la Lettera pastorale dell’8 dicembre 1971 del cardinale Michele Pellegrino, allora Arcivescovo di Torino. Perdoni, Presidente, guida dei Vescovi italiani, ciò sarebbe lungimirante? Sarebbe un andare avanti, verso dove? Non si avvede del baratro delle anime che non vogliono essere semplicemente ascoltate, bensì bramano forti, seri, coraggiosi, virili insegnamenti spirituali, evangelici e dottrinali proprio da Voi, eredi degli Apostoli?
Il vescovo Bettazzi, prima di Zuppi, ha raccontato che si esaltò nel vedere all’Assise 2500 padri conciliari, provenienti da tutto il mondo: immagine della Chiesa collegiale, comunitaria. Il Sinodo, si è detto, collega al Concilio Vaticano II. E tutto il resto della Chiesa di duemila anni dove è andata, dove è stata collocata? Dichiara Zuppi: «La sinodalità è il modo di ascoltare tutto il popolo di Dio per questo lo completa [il Concilio, ndr]»; «I tre pezzi: il primato del Papa, la collegialità, grande scoperta e consapevolezza del Concilio; i vescovi, la sinodalità e tutto il Popolo di Dio. Si completano tutti».
Infine l’ultima domanda dell’intervistatore: «Liturgia promessa mantenuta o delusa? Da un latto frutto del Concilio, in lingua corrente e non più in latino, eppure ancora oggi questa operazione di avvicinare la liturgia alla vita di chi la celebra non possiamo dirla compiuta…».
«Ci sono due dimensioni che si incontrano nella celebrazione eucaristica, nella liturgia, quella orizzontale e quella verticale, credo che dobbiamo recuperare tanto sia l’uno che l’altra e non a caso papa Francesco ha insistito tanto sull’ars celebrandi, sull’omelia, sulla partecipazione della comunità nella celebrazione eucaristica. La dimensione verticale è quella del… quella che forse negli anni del dopo Concilio soprattutto è stata più lasciata da parte perché c’era il grande senso della comunità che prevaleva, dell’incontro, dell’assemblea, della famiglia di Dio, del popolo che si ritrovava, credo che dobbiamo tanto curare la celebrazione recuperando le due dimensioni. Non c’è una dimensione… Non recuperiamo la dimensione orizzontale della partecipazione dell’assemblea… dell’attenzione alla vita, quindi la vita che entra dentro la celebrazione eucaristica, se non anche in quella verticale e poi Bologna aveva il cardinale Lercaro che direi che è stato forse l’interprete principale del Concilio della riforma liturgica e aveva mi sembra che per esempio ancora oggi trovo tanta attenzione e tanta cura nelle chiese di Bologna ereditate dall’attenzione del cardinal Lercaro che in molti, alcuni degli altari che delle tante chiese che ha costruito aveva posto questa, questo versetto della Didaché: “Se condividiamo il Pane del cielo come non condividiamo, non condivideremo quello della terra?».
Felice delle novità della musica inserite nella riforma (rivoluzione) liturgica, Zuppi si compiace sorridente e con soddisfazione narra che frequentava sempre quelle celebrazioni: «Avevo molta passione per la cosiddetta Messa beat».
Questo il Concilio e questa la Chiesa secondo il cardinale Matteo Zuppi.
Solo più un’osservazione: molto dovrà cambiare e i segnali, seppure maltrattati e isolati, si vedono già (grazie anche a Internet, che li rende pubblici) nel malessere di tante e tante coscienze nel mondo intero, appartenenti a tutte le generazioni e a tutte le estrazioni sociali, anche quelle sacerdotali e religiose, coscienze non del «popolo di Dio», ma di chi è rimasto fedele e di chi vuole diventare fedele alla Via, alla Verità, alla Vita.