Sinodo sull’Amazzonia: l’hanno scoronato

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(Cristiana de Magistris) I nemici della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, oggi continuamente offesa, usano impugnare a loro sostegno le parole pronunciate dal Salvatore stesso nel suo processo davanti a Pilato: «Il mio regno non è di questo mondo».

Occorre allora qualche precisazione esegetica per mostrare a costoro che, ad una lettura attenta, quelle parole del Signore non fanno che affermare ciò che essi pretendono negare. Regnum meum non est de hoc mundum, si legge nel Vangelo di Giovanni, e poco dopo, regnum meum non est hinc. La preposizione de come l’avverbio hinc indicano non un’appartenenza ma una provenienza. Dunque, la traduzione più corretta sarebbe: il mio regno non è da questo mondo, il mio regno non è da qui. Secondo la spiegazione che ne danno sant’Agostino e san Giovanni Crisostomo, queste parole vanno così interpretate ed esplicitate: la mia potenza e l’autorità per la quale Io sono re, dice il Signore, non hanno il loro principio e la loro origine nell’elezione degli uomini o in cause temporali. Le loro origini sono altrove: esse risalgono al mio eterno Padre. I regni della terra traggono la loro forza dal numero e dalla capacità del loro sudditi; il mio regno celeste ha forza in se stesso.
In altri termini, dicendo Regnum meum non est de hoc mundum, «il mio regno non è di questo mondo», il Signore mostra semplicemente che il suo potere non è soggetto alle vicissitudini comuni a tutti i regni che hanno le loro radici sulla terra, ma che, disceso dal cielo, il suo regno è eterno ed immutabile. Il Signore non ha detto: «Il mio regno non è di quaggiù», ma, secondo l’originale latino e greco, «il mio regno non è da quaggiù». Infatti, non v’è alcun dubbio che il suo regno sia in questo mondo fino alla consumazione dei secoli, e di tale regno, ben più grande e potente di quello che Pilato avrebbe immaginato e che i suoi attuali nemici credono di poter distruggere, Egli è e sarà sempre l’unico divino re.

Il regno di Cristo è infatti indistruttibile, poiché si fonda sulla sua unione ipostatica, ossia sulla sua unione alla divinità. Pio XI nell’Enciclica Quas primas, afferma che «è necessario rivendicare a Cristo uomo, nel vero senso della parola, il nome e i poteri di re»; infatti, soltanto in quanto è uomo può ricevere dal Padre «la potestà, l’onore e il regno», poiché come Verbo non può non avere in comune col Padre tutto ciò che è proprio della divinità. Per conseguenza, «Egli su tutte le cose create ha il sommo e assoluto impero» (ivi). Molto bene afferma san Cirillo di Alessandria che Cristo «ha il dominio su tutte le cose create, non estorto con violenza né venutogli dagli altri, ma per sua stessa essenza e natura»; tale principato viene a Cristo dalla sua unione ipostatica. Il che significa che «Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma che anche a lui come uomo debbono e gli Angeli e gli uomini essere soggetti ed obbedire”, poiché “per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature» (ivi).

A questo punto, le parole immortali di sant’Agostino suonano come un invito indeclinabile alla resipiscenza, rivolto non più al mondo, ma a quella gerarchia della Chiesa che sembra voler scoronare Cristo del suo titolo di re assoluto. «Che gran cosa fu per il re dei secoli farsi re degli uomini? […] Che il Figlio di Dio uguale al Padre, il Verbo per cui tutte le cose sono state fatte, abbia voluto essere re d’Israele è una degnazione non una promozione, è un segno di misericordia (per noi) non un aumento di potere (per Lui). Egli infatti, che fu appellato sulla terra re dei Giudei, è in cielo il Signore degli Angeli». In altri termini, scoronare Cristo non è un danno per Lui, che è e rimane re del cielo e della terra, ma per noi. «Gravemente errerebbe – scrive ancora Pio XI – chi togliesse a Cristouomo il potere su tutte le cose temporali, dato che egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio». Se poi quest’errore viene iniettato nelle vene del corpo mistico di Cristo da chi dovrebbe debellarlo, allora siamo all’apostasia.

Nella festa di Cristo re è – provvidenzialmente e simbolicamente – terminato il Sinodo dell’Amazzonia, quasi intronizzando mostruosi e volgari idoli pagani, laddove occorreva riaffermare la regalità assoluta di Cristo sul tempo e sulla storia, sulla Chiesa e sul mondo. Pare che i Padri Sinodali – spogliati, per la prima volta in aula sinodale, delle loro insegne, scoronandosi, loro sì, della loro dignità – con a capo il Vescovo di Roma abbiano voluto ripetere il grido che si udì duemila anni fa in Gerusalemme: «Non vogliamo che costui regni su di noi!» (Lc 19, 14). Ma il regno di Cristo è eterno e indefettibile, perché – pur essendo in questo mondo – non trae le sue origini da esso ma dal cielo. E – ora come allora – coloro che tentano di opporvisi non fanno altro che realizzare i disegni dell’eterna sapienza, la quale tutto dispone per la gloria del suo Cristo: ogni sua apparente sconfitta prelude ad un più glorioso trionfo. Essi sono strumenti inconsapevoli di un piano eterno che li sovrasta, e meritano – oltre alla nostra ferma resistenza e doverosa riparazione – più la nostra fraterna compassione che la nostra ira, poiché ai suoi discepoli Cristo re continua a dire: «Confidate, io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33), ma ai suoi nemici ripete: «Chiunque cadrà su questa pietra (che è Lui stesso) si sfracellerà; e colui sul quale questa pietra cadrà sarà stritolato» (Lc 20, 18). 

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