Nella discussione che si vuole realistica su Russia Europa NATO pesa a mio parere un difetto di prospettiva, ovvero un apriori: la entificazione della Russia come Potenza mondiale. Si assume che “la Russia” odierna debba essere considerata come la permanenza di una entità imperiale zarista formatasi tra il XVI e il XVIII secolo, in realtà definitasi tra Caterina e Alessandro II, ucciso nel 1881, pochi decenni prima della trasformazione in URSS. Questa presunta Russia a statuto perenne nel concerto delle Potenze mondiali “è sempre stata x, è intrinsecamente x” e, si dice, “esige per sé stessa y”, ovvero territori, spazi di influenza, e le forme di considerazione vigenti tra le Potenze.
Ora in ogni ragionamento sulla Potenza, diversamente da quello sulla legittimità politica, vale il peso specifico; non si è Potenza a prescindere dalle capacità oggettive e comparate di potere. La Potenza è un fatto non un diritto, neppure un diritto acquisito. In questo senso “la Russia” non è più da trent’anni la Potenza territoriale conservata dall’URSS. Come in tutte le crisi di un sistema imperiale, popoli e territori si sono separati dall’antico centro di gravità; hanno scelto l’autodeterminazione, ed hanno altri poli di attrazione. Così l’intera fascia europea dell’ex impero e nazioni satelliti guarda all’Europa occidentale o vi appartiene già. Non solo i popoli baltici, ma Bielorussia e Ucraina sono entro questa attrazione euro-occidentale, e la stessa Russia-Occidente lo è. Questo dato profondo è parte rilevantissima del problema che si pone ai governanti russi tentati di neosovietismo.
Non esiste una continuità giuridica di quel sistema di potenza, oggi, non più di quanto esistano ancora gli imperi coloniali spagnolo o inglese, o gli imperi territoriali asburgico (Vienna) o ottomano. Poiché la relazione tra Potenze è (seppure imperfettamente e in forme molto diverse) a somma zero, gli spazi e le funzioni non più coperti da una Potenza sono direttamente o indirettamente acquisiti ad altre. Come è avvenuto regolarmente sul fronte europeo (e mondiale, ma le evidenze territoriali sono in Europa) dopo il 1989. Niente dei territori-popoli perduti da Mosca, per loro volontaria separazione, non per conquista altrui, spetta in principio allo stato russo quale esso è oggi. Alla Russia post-sovietica appartiene solo un residuo materiale, o strumentale, di potenza, la deterrenza nucleare.
La rivendicazione di un recuperato controllo della Russia su ‘suoi’ territori ex imperiali si avvale di un argomento, quello della storia e dei bisogni storici, infondato, che non ha corso nel diritto internazionale né di una morale internazionale pubblica. L’argomento della sicurezza non ha in sé giustificazione, poiché non essendo più la Russia una grande Potenza non è in collisione con altre e non ha da temere dalle altre. Relazioni e competizioni sono su altri livelli e fronti, come è stato per trent’anni. E solo in quanto residua la pericolosità obiettiva del suo potenziale bellico, le nazioni vicine la bilanciano secondo regole generali e permanenti nei rapporti internazionali. La Russia contemporanea può solo agitare (fino ad esercitare) la minaccia armata per ottenere ciò cui non ha diritto. Può solo mostrare di avere il potere di ritornare Potenza; questo è l’assunto o l’azzardo di Putin.
La rivendicazione di territori cuscinetto, di neutralizzazioni e smilitarizzazioni dei vicini, va interpretata come un complesso di colpi di sonda del presidente Putin volti a capire quanto lo spazio che si è trasferito, diremmo rifugiato, sotto la Potenza altrui sia effettivamente indisponibile o quanto invece nuovamente accessibile alla Potenza russa. L’invasione dell’Ucraina è dunque un sondaggio condotto sulla capacità e volontà europea di far fronte ad una ‘inversione della storia’. Che certe élites russe, eredi del potere sovietico, giudichino inaccettabile la condizione (il declassamento) post-imperiale, si può capire, come è comprensibile che esse possano tentare di invertirne con le armi gli effetti, che sono poi gli effetti di una crescente europeizzazione, e assimilazione ‘occidentale’ delle popolazioni su ogni piano.
Questa possibilità di reazione era stata intravista da una parte degli studiosi (in particolare americani) di relazioni internazionali, in termini a mio parere parziali e ottimistici: data a. la paura russa di accerchiamento, si teorizzava b. la necessità di attenuarla con concessioni, con c. un sicuro effetto di apaisement. Una diagnosi che ripetuta oggi, con la guerra ucraina in corso, non equivale a ‘spiegare’ la reazione russa ma a consentirvi. Si tratta, invece, di valutare se una revanche manifesta sia accettabile proprio in termini di geopolitica, oltre che di diritto e giustizia internazionale.
Ora, non solo nessuna popolazione dell’Europa ex-sovietica auspica un ritorno al pre-1989 ma, e anzitutto, il crollo dell’URSS ha rappresentato la fine di un sistema di dominio che aveva diviso il mondo in due fronti opposti. Senza illusione di pace universale, il nuovo ordine euro-russo quale sembrava essersi definito dagli anni Novanta e durare (fino a ieri) è, per il mondo, preferibile a quello passato. Questo nuovo ordine non deve essere reversibile, in nessuna forma in cui possa esserlo. L’esperimento di Potenza di Putin deve essere non solo contrastato ma vanificato; Putin non deve riportarne alcun guadagno, o l’esperimento diventerà una prassi: si tratterà ogni volta di una prova in cui la Potenza stessa verrà accresciuta nella sua forza e confermata nella sua volontà.
Su questa strada nessun perenne impero russo verrebbe ricostruito, in effetti, ma l’Europa occidentale sarebbe costretta a offrire periodicamente sacrifici propiziatori (anche umani, in termini di vite e di libertà dei ‘neutrali’, dei non protetti) ad una entità né amica né nemica ma incombente e in certa misura dominante. È per evitarlo che la storia, in maniera inattesa, chiede all’Europa di uscire dal ruolo comodo e ideologico della Graecia capta. È invece in gioco un vero equilibrio di potenza tra Potenze, un enjeu finora negato di cui invece l’Europa (come UE e come NATO) è immediatamente parte. Nelle sue molte dimensioni la capacità di resistenza dell’Ucraina mette a prova l’Europa come Potenza, e l’esito della guerra ne sarà la misura della sua capacità di opporre potere a potere.
Far intervenire in questo quadro la voce della Chiesa cattolica è certamente arduo, non appena si vada oltre il promemoria del primato della Pace e dell’errore della Guerra. La lunga lotta riformistica intra-cattolica contro l’istituzione ha indebolito la Chiesa come corpo militante. L’attenzione al “mondo”, un vero equivoco concettuale e dottrinale, l’ha trasformata in una clase discutidora senza capacità di influire politicamente su grande scala. E se è cosa santa porre i popoli sotto la protezione di Maria con una consecratio resterà, non secondario per l’istituzione, il dramma di una ingiustizia, quella consumata dall’aggressore, non detta e non sanzionata dalla Chiesa, quasi essa abbia smarrito gli stessi strumenti e istituti giurisdizionali che appartengono alla sua struttura originaria.