Il 7 aprile scorso un dodicenne inglese, Archie Battersbee, è stato ricoverato al Royal London Hospital di Londra, a seguito di un grave danno cerebrale, probabilmente dovuto ad una sfida estrema online. Nel tempo della sua permanenza in ospedale, i medici hanno sempre sostenuto la tesi secondo cui Archie era “cerebralmente morto”. Ciononostante, la madre del bimbo, Hollie Dance, non si è arresa, convinta che il figlio fosse vivo: il 14 giugno scorso, ha anche rilasciato un’intervista a GB News, nella quale, oltre a mostrare come Archie afferrava la sua mano, ha anche affermato che il bambino «in parte apre gli occhi. La sua pressione sanguigna è cambiata quando il suo piccolo amico è venuto a trovarlo in ospedale […]. La pressione cambiava ogni qualvolta l’amico gli girava attorno e accarezzava il suo viso […]».
Purtroppo, la battaglia legale tra la famiglia di Archie e l’ospedale, descritta in un precedente articolo, ha avuto un triste epilogo: il 6 agosto, verso le ore 10, i medici hanno progressivamente rimosso la terapia farmacologica e tutti i sostegni vitali fino a che, alle ore 12, non è stata sospesa la ventilazione e Archie è deceduto per conseguente soffocamento. Seppure vi sia un comune consenso sul fatto che il piccolo sia stato vittima di eutanasia, come attestato, a più riprese, dal Centro Studi Livatino (qui, qui, e qui), e da altre pubblicazioni o interventi (qui, qui, qui e qui), si ritiene opportuno riprendere la questione, cercando di evidenziare meglio e in che maniera quanto fatto al piccolo Archie si configuri, moralmente, come un atto eutanasico, e quindi un omicidio.
Sulla questione della morte cerebrale
Per capire se sussista l’atto eutanasico, risulta di fondamentale importanza comprendere se, al momento del distacco della ventilazione, il piccolo Archie era davvero già morto, secondo il noto criterio neurologico di “morte cerebrale” o se, al contrario, era vivo.
Val la pena soffermarsi brevemente sulla terminologia adottata dai medici del Royal London Hospital nel caso di Archie. Poco tempo dopo il ricovero, i medici avevano già tratto le proprie conclusioni sullo stato neurologico del bambino e hanno continuato ad affermare tale convinzione anche in sede legale. Ciononostante, stupisce constatare il modo contraddittorio in cui essi si esprimono nei documenti pubblici sul caso Archie.
Partiamo dalla lettera del Barts Health NHS Trust, il fondo che amministra il Royal London Hospital, ai genitori di Archie, Hollie Dance e Paul Battersbee, circa il protocollo da eseguire per la rimozione dei sostegni vitali del figlio. Ai punti 10-12 si legge (il grassetto è nostro):
«10. Il momento della morte di Archie sarà soltanto confermato da un medico, dopo che sia trascorso un certo tempo durante il quale la famiglia potrà rimanere insieme indisturbata nella sua privacy.
11. Il tempo necessario perché il cuore cessi di battere è spesso questione di minuti, ma in alcuni casi può prolungarsi. Un medico esaminerà regolarmente Archie per confermare che il cuore ha smesso di battere […].
12. Una volta che Archie sarà morto lo laveremo, o vi aiuteremo a farlo, se lo desidererete. […]».
Per di più, nel loro comunicato stampa del 6 agosto, si legge (il grassetto è nostro): «Archie Battersbee è morto sabato pomeriggio al Royal London Hospital dopo che il trattamento è stato sospeso, in linea con le direttive della corte per il suo miglior interesse».
Non si comprende, se il bambino era “cerebralmente morto”, come i medici sostenevano, per quale motivo parlare in tali termini. Tutto questo è avvenuto nonostante una ingiunzione del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle persone con disabilità che aveva «[…] chiesto allo Stato parte (il governo britannico) di astenersi dal sospendere le cure mediche per la conservazione della vita, compresa la ventilazione meccanica, la nutrizione e l’idratazione artificiali, alla presunta vittima mentre il caso è all’esame della commissione».
Archie dunque, per ammissione degli stessi medici, non era morto, ma vivo, a meno di non far proprio il discusso concetto di morte cerebrale, introdotto il 5 agosto del 1968 nel Rapporto redatto da un comitato ad hoc della Harvard Medical School per ridefinire il concetto tradizionale di morte.
Questo concetto si basa sulla tesi secondo cui: «(1) il cervello è l’integratore somatico centrale “necessario per il funzionamento dell’organismo nel suo insieme” e (2) di conseguenza, un paziente, cerebralmente morto, con un supporto vitale è semplicemente un insieme di organi e sottosistemi non integrati mantenuti artificialmente» (J. L. Bernat, C. M. Culver e B. Gert, On the Definition and Criterion of Death, “Annals of Internal Medicins” (March 1981), p. 391).
Tale criterio, che si affida ad elementi di carattere neurologico, viene oggi adottato in molti paesi per poter dichiarare morta una persona che però non presenta i segni evidenti della morte classicamente intesa (es. rigor mortis, calo della temperatura, decomposizione). Come afferma infatti la dott.ssa Doyen Nguyen, medico e teologo morale, che ha dedicato a questo tema una fondamentale monografia di 600 pagine (The New Definitions of Death for Organ Donation: A Multidisciplinary Analysis from the Perspective of Christian Ethics, Peter Lang, 2018), la condizione di “morte cerebrale” è proprio il c.d. “coma irreversibile” e la definizione del ‘68 aveva degli intenti specifici e ben lontani dalla legittimità morale, come: alleviare il peso che i pazienti in coma irreversibile rappresentano per se stessi, le loro famiglie e le risorse ospedaliere, per liberare posti letto occupati da questi pazienti e favorire il trapianto di organi. La dottoressa Nguyen è anche autrice di un interessante saggio, Why the Thomistic Defense of “Brain Death” Is Not Thomistic: An Analysis from the Perspectives of Classical Philosophy and Contemporary Biophilosophy (The Thomist: A Speculative Quarterly Review, vol. 82, n. 3, 2018, p. 407-446) e ha rilasciato alcune interviste, alle quali rimando per ulteriori approfondimenti (qui e qui).
Questa nuova definizione di morte è tutt’altro che pacificamente accettata dalla comunità scientifica e può essere messa in discussione anche dal punto di vista filosofico, utilizzando un approccio realista, di stampo aristotelico-tomista. Su questo tema un contributo di grande rilevanza è stato dato dal libro Finis Vitae, la morte cerebrale è ancora vita?, a c cura dal professor Roberto de Mattei, pubblicato nel 2007, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e dall’editore Rubbettino. In esso sono raccolti molteplici interventi di neurologi, cardiologi, anestesisti e filosofi di spessore che mostrano, con il rigore della disciplina scientifica (medica e filosofica), come tale criterio abbia rimpiazzato la tradizionale definizione di morte creando ad hoc un nuovo concetto di morte basato sulla (presunta) assenza di attività cerebrale. Con l’ausilio di numerose fonti viene anche mostrata l’inconsistenza di tale criterio nonché il suo forte legame con la pratica eutanasica.
Proprio per questo, bisogna porre una particolare attenzione a questo tema. Se, infatti, si accetta pacificamente tale criterio, si rischia di aprire una crepa nella diga che consente una ferma e libera opposizione alla deriva eutanasica nei nostri paesi.
Sulla questione dell’eutanasia
Appurato che la definizione di “morte cerebrale” risulta insufficiente per asserire la morte effettiva di un essere umano, rimane da capire se la rimozione dei supporti vitali ad Archie sia stata un atto eutanasico o meno. Prima di procedere, è necessario richiamare brevemente che cosa si intenda per “eutanasia”. Secondo la Congregazione per la Dottrina della Fede essa è«un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati» (Dichiarazione sull’eutanasia, Iura et bona, 5 maggio 1980, n. 2).
In particolare, come ricorda il prof. Mario Palmaro nel suo libro Eutanasia, diritto o delitto? Il conflitto tra i principi di autonomia e di indisponibilità della vita umana (Giappichelli, Torino 2012, p. 16), gli elementi necessari per potersi dire di fronte ad un atto eutanasico sono i seguenti:
- Un atto umano, cioè, un comportamento riconducibile alla volontà di un soggetto, dotato di libero arbitrio (in altre parole: non esiste un’eutanasia colposa, ma essa presuppone sempre che almeno una persona la voglia attuare);
- Un atto umano, che può consistere in una condotta attiva o in una condotta passiva;
- Un atto umano, che comporta delle conseguenze nei confronti di un terzo soggetto;
- Un nesso causale fra l’atto umano e la morte provocata di una terza persona (elemento oggettivo, che concerne la natura dell’atto in sé, necessario e sufficiente a provocare la morte);
- Un’intenzione, presente nella volontà del soggetto agente, che consiste nell’agire allo scopo di provocare la morte (elemento soggettivo, che concerne la volontà del soggetto agente);
- La presunzione soggettiva, nella volontà del soggetto agente, di agire in vista di uno scopo qualificato – almeno in senso soggettivo – come un bene: porre fine alle sofferenze del paziente e a quelle dei parenti; eliminare un problema per il sistema sanitario; risparmiare risorse per malati ritenuti più meritevoli ecc.
L’atto effettuato dai medici di Archie il 6 agosto risponde alle caratteristiche elencate? Possiamo dire che (a) i medici sono agenti con libera volontà, (b) hanno attuato una condotta attiva di rimozione di sostegni vitali, (c) l’atto da loro effettuato ha avuto delle conseguenze su un soggetto terzo, Archie Battersbee, (d) la rimozione della ventilazione presenta certamente un nesso di causalità con la morte del bimbo, il quale è sopravvissuto ben 4 mesi con il supporto vitale. Quanto agli ultimi due punti, soprattutto alla luce delle affermazioni dei medici riportate supra, sembra si possa rispondere affermativamente alla domanda.
L’unico “nodo” che rimane da sciogliere, è se la ventilazione polmonare costituisca o meno un trattamento proporzionato al paziente e se quindi, in caso di mancata proporzionalità, si possa omettere senza per questo incorrere nella fattispecie eutanasica (per la definizione di mezzi proporzionati e sproporzionati si rimanda alla Dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede, n. 4).
Ordinariamente, idratazione, nutrizione e ventilazione sono dei mezzi proporzionati in quanto riguardano la cura minima dovuta al paziente per le sue esigenze fisiologiche basilari (bere, mangiare, respirare) che, se non espletate, condurrebbero inevitabilmente alla morte. Vi sono dei casi extra-ordinari nei quali tali trattamenti potrebbero risultare inutili: ad esempio, per un paziente con una grave compromissione del sistema digerente o respiratorio che non riesce ad assimilare il nutrimento o ossigenare i tessuti. In questi casi, molto estremi, tali trattamenti non andrebbero intrapresi e l’omissione si configurerebbe semplicemente come accettazione e non accelerazione della morte.
Il caso di Archie è però diverso. Per lui erano stati già intrapresi tutti i trattamenti di sostegno vitale. Una volta intrapresi, tali trattamenti non possono essere sospesi senza incorrere nel massimo danno per il paziente (la morte). Quanto detto risulta ancor più evidente se si considera che il ventilatore polmonare, di per sé, non avrebbe il potere di “tenere in vita” un paziente qualora questo sia talmente compromesso da non poter assicurare l’ossigenazione di tutti gli organi interni. Il ventilatore è un ausilio o un sostituto per la respirazione esterna (i.e., quella che avviene mediante i flussi d’aria nei polmoni), ma non certo di quella interna (i.e., quella che avviene mediante scambi gassosi dagli alveoli al sangue e, da questo, ai diversi tessuti). Nonostante la compromissione del sistema nervoso, Archie era in grado di assimilare quanto necessario per poter vivere, altrimenti sarebbe morto immediatamente e non avrebbe vissuto per ben 4 mesi.
La vera domanda quindi è: per quale motivo i medici hanno intrapreso il trattamento di ventilazione sostenendo tuttavia che Archie era “cerebralmente morto” e che non aveva possibilità di sopravvivenza?
Omettere un trattamento che si sa essere inutile non costituirebbe eutanasia, ma piuttosto un rifiuto di accanimento terapeutico, l’accettazione di una fine ineluttabile. Una volta però intrapreso questo trattamento, sussiste un legame tra la sopravvivenza del paziente e la ventilazione dal momento che, senza tale ausilio, esso non riuscirebbe autonomamente a compiere la respirazione esterna e, seppur in grado di compiere quella interna, inevitabilmente morirebbe. Il ventilatore, in altri termini, è condizione necessaria, ma non sufficiente al mantenimento in vita del paziente. Proprio in virtù della necessità, una volta che il trattamento viene intrapreso, non si tratta più di “omettere una cura inutile”, ma piuttosto di sospendere una cura necessaria in quanto vitale (come idratazione e nutrizione) e, perciò, provocare la morte. Per i medici, questo è stato fatto nel nome del «best interest» del bambino, suggerendo chiaramente che desideravano ottenere il fine ulteriore dell’eliminazione della sofferenza (cosa in se stessa moralmente lecita), ma tramite un fine prossimo, costituente l’oggetto specifico dell’atto, di provocare la morte rimuovendo i supporti vitali (cosa in se stessa moralmente illecita). Il fine ulteriore buono non può giustificare il fine prossimo malvagio, secondo il principio «il fine non giustifica i mezzi». Ed è il fine malvagio a determinare la natura dell’atto condotto dai medici nei confronti di Archie Battersbee.
Non si può, in tal caso, neanche invocare l’applicazione del principio del doppio effetto per giustificare quanto fatto ad Archie. Tale principio afferma che, in presenza di un atto dal quale si prevedono seguire due effetti, uno buono e uno cattivo, «porre l’azione può essere lecito, purché si verifichino tre condizioni: (a) il soggetto operante miri, con la sua retta intenzione e con sincerità, ad ottenere l’effetto buono, e non quello cattivo; (b) i due effetti non siano tra di loro (oggettivamente) così collegati che quello buono nasca da quello cattivo (cioè, bisogna che o i due effetti scaturiscano parallelamente nella stessa azione, oppure l’effetto cattivo nasca da quello buono; non quello buono da quello cattivo, perché in quest’ultimo caso si farebbe il male per ottenere il bene, il che non è lecito); (c) che vi sia una ragione giusta e proporzionata per permettere l’effetto cattivo» (F. Roberti, P. Palazzini, Dizionario di Teologia Morale, vol. I, Editrice Studium, 1955, pp. 609-610).
Come mostrato, almeno due di questi punti non sono soddisfatti, a causa dell’intenzione dei medici.
Appare peraltro difficile giustificare tutto questo, come fa il rapporto del Comitato di Harvard a p. 340 (l’unico riferimento citato nell’intero documento), appellandosi al Discorso di Pio XII nel 1957 al Congresso Internazionale degli Anestesiologi che rispondeva a tre quesiti sulla rianimazione. In tale occasione, il Pontefice asserì che fosse lecito interrompere dei tentativi di rianimazione anche qualora non fosse cessata la circolazione sanguigna. Tuttavia, nel medesimo contesto, Pio XII aveva anche posto delle condizioni precise per la legittimità di tale interruzione: (a) che fosse valido il principio del doppio effetto, (b) che si interrompessero solo le cure straordinarie, o sproporzionate, «secondo le circostanze di persone, luoghi, tempi, cultura», (c) che l’anestesista desse «una definizione chiara e precisa di “morte” e del “momento della morte”», (d) che si mantenesse salda la presunzione di permanenza della vita che continua, secondo l’insegnamento di Pio XII, «finché le funzioni vitali si manifestano spontaneamente o anche per mezzo di processi artificiali» (grassetti nostri).
Alla luce di quanto sin qui detto sembrano non sussistere queste condizioni. Dunque, in un tale caso, si può affermare che interrompere i sostegni vitali si è configurato non come legittima rinuncia ad un accanimento terapeutico o un’applicazione del principio del doppio effetto, ma come un vero e proprio atto eutanasico e dunque moralmente illecito.