L’8 giugno 2022 è stata trasmessa al Parlamento una nuova Relazione sulla legge 194/78 con i dati definitivi per il 2020. Ciò che immediatamente colpisce è una affermazione che denota una pervicacia nel male nonostante l’insorgere di una pandemia mondiale (p. 2): «Nel 2020 anche i servizi e il personale impegnati nello svolgimento delle interruzioni volontarie di gravidanza sono stati coinvolti dall’emergenza pandemica da COVID-19. Il Ministero della Salute, fin dall’inizio della pandemia, nelle Linee guida per la rimodulazione dell’attività programmata differibile in corso di emergenza da COVID-19, ha identificato l’interruzione volontaria di gravidanza tra le prestazioni indifferibili in ambito ginecologico».
Per il Ministero uccidere degli innocenti è una prestazione indifferibile. Nonostante l’impegno profuso nel garantire che le madri potessero uccidere i propri figli, il numero di aborti rilevati nell’arco del 2020 è di 66.413, in apparente calo rispetto agli anni precedenti.
La parola “apparente” non è casuale. Infatti, il numero di aborti è falsato dal vasto impiego della cosiddetta “contraccezione d’emergenza”. Bisogna tenere in debito conto il fatto che l’8 ottobre 2020, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), con la Determina n. 998, ha ulteriormente liberalizzato la pillola dei 5 giorni dopo, nota come EllaOne (Ulipristal Acetato), abolendo l’obbligo di prescrizione medica anche per le minorenni.
Nel 2020 si è giunti alla vendita di 266.567 scatole di EllaOne (p. 23), in aumento rispetto all’anno precedente (259.644) e di gran lunga superiore al 2015 (145.101). La relazione afferma (p. 10): «si può ipotizzare che l’aumento dell’uso della contraccezione d’emergenza – Levonorgestrel (Norlevo, pillola del giorno dopo) e Ulipristal acetato (ellaOne, pillola dei 5 giorni dopo) – abbia inciso positivamente sulla riduzione del numero di IVG».
Tale affermazione è vera solo se si contano gli aborti chirurgici e farmacologici, ma non lo è in assoluto. Brache et al., nel 2010, mostrarono come l’Ulipristal Acetato presenti la minore efficacia di ritardo dell’ovulazione – il vero effetto contraccettivo – proprio in corrispondenza della più alta probabilità del concepimento (solo l’8.3% quando la somministrazione avviene il giorno prima o il giorno stesso dell’ovulazione, ove la probabilità di gravidanza sale al 31% e 33%, rispettivamente). Ciò implica che se l’efficacia propagandata nell’impedire la gravidanza è vera, essa deve avvalersi anche di un effetto antinidatorio: l’embrione, già concepito, non riesce ad impiantarsi nell’utero materno e, di conseguenza, muore. Tali trattamenti ormonali si rivelano dunque una fucina inquantificabile di precocissimi cripto-aborti che, quanto più vengono propagandati, tanto più si verificano. Queste piccole vittime, vanno inevitabilmente ad aggiungersi a quelle “ufficiali”, ma senza entrare nel novero delle IVG, motivo per cui il trend in diminuzione è solo apparente.
Un’ulteriore riprova della pervicacia nel male innescato dalla Corte Costituzionale nel 1975 e in seguito con l’iniqua legge 194 nel 1978, è la progressiva privatizzazione dell’atto abortivo. Infatti, nel contesto della pandemia, lo zelo del Ministero nell’assicurare l’accesso all’aborto si è manifestato anche con la liberalizzazione della pillola abortiva RU486 (mifepristone).
Il mifepristone era stato approvato e immesso in commercio dall’AIFA con la Delibera n. 14 del 30 luglio 2009, ma l’impiego era limitato al regime di ricovero per i tre giorni necessari, anche se molte regioni con ordinanze proprie permettevano invece il day hospital. Proprio la decisione della governatrice dell’Umbria, Donatella Tesei, di annullare la delibera della precedente amministrazione che permetteva il day
hospital ha indotto il ministro Roberto Speranza a chiedere un parere al Consiglio Superiore di Sanità, che ha quindi rimosso il vincolo. Tutto ciò, va sottolineato, in perfetta coerenza con la 194 (si veda, in particolare, l’art. 15).
Il 12 agosto 2020, con una circolare della Direzione generale della prevenzione sanitaria del Ministero della Salute recante l’aggiornamento delle “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine”, si è annullato l’obbligo di ricovero dall’assunzione della pillola RU486 fino alla fine del percorso assistenziale e si è allungato il periodo in cui si può somministrare da sette a nove settimane di gravidanza. È interessante leggere nel documento la seguente affermazione: «[…] si raccomanda di effettuare il monitoraggio continuo ed approfondito delle procedure di interruzione volontaria di gravidanza con l’utilizzo di farmaci, avendo riguardo, in particolare, agli effetti collaterali conseguenti all’estensione del periodo in cui è consentito il trattamento in questione».
Excusatio non petita, accusatio manifesta. Gli effetti collaterali sono stati riportati nella relazione, seppur senza particolare enfasi. Sovente si sente dire che ogni farmaco presenta tali effetti e che quindi non dovrebbe stupire che anche la RU486 ne abbia. Questo è certamente vero, ma è altrettanto vero che mentre in genere i farmaci servono come terapia per determinate patologie, per le quali si accetta un determinato rapporto rischi/benefici, la RU486 viene somministrata ad una donna perfettamente sana, in una condizione fisiologica come la gravidanza, con l’intento di uccidere l’innocente che porta in grembo. In pratica, la madre accetta un rapporto rischi/benefici totalmente sbilanciato verso i rischi, con l’unico “beneficio” della morte del figlio. La relazione stessa sottolinea peraltro come il 2.9% degli aborti effettuati con mifepristone è esitato in un aborto incompleto o mancato a cui è dovuto seguire un intervento chirurgico (p. 55). Questo sfata anche il mito di chi tesse le lodi di un aborto “più sicuro”.
Il numero di concepiti uccisi con mifepristone e prostaglandine è salito a ben 20.902 nel 2020 da 857 che erano nel 2009 e il trend è in continuo aumento (p. 53). Tale metodo abortivo ha costituito ben il 35.1% degli aborti totali. Addirittura, nel trimestre successivo alla liberalizzazione, da ottobre a dicembre, si è quasi arrivati ad un rapporto paritetico tra aborti effettuati con metodo chirurgico e con RU486 (55.9% e 42.0%, rispettivamente). Questi dati ci parlano di una progressiva “privatizzazione” dell’aborto che è sempre più relegato nelle case e nella solitudine. La portata a lungo termine – anche psicologica – di un tale processo sarà compresa solo “a regime”: non deve essere esattamente uno scherzo, per una donna, affrontare i crampi uterini dovuti alle prostaglandine e la successiva vista del figlio, talvolta perfettamente integro all’interno del sacco amniotico.
Un ultimo dato degno di (triste) nota: il 6.5% degli aborti totali sono stati effettuati oltre la dodicesima settimana. Questo è una risposta per chi, a distanza di 44 anni, ancora crede che la 194 ponga dei limiti all’epoca gestazionale in cui si può ricorrere all’aborto. Oltretutto, salvo per il caso dell’Olanda – dove però per legge si può abortire fino alla 22esima settimana – tale percentuale è la più alta fra i principali paesi europei ed è in continua crescita ogni anno che passa (p. 48). Come se non bastasse, 913 aborti sono stati effettuati oltre le 21 settimane di gravidanza (Tabella 19). Questi dati mostrano come nel popolo italiano cresca sempre di più un’inquietante attitudine eugenetica volta all’eliminazione dei bambini malati.
Il 24 giugno scorso, festa del Sacro Cuore e di San Giovanni Battista, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha avuto il coraggio di sovvertire, con un gesto storico, la sentenza Roe v. Wade che nel 1973 impose l’aborto in tutti gli stati federali. Ogni pro-life che si rispetti deve combattere perché una simile inversione di tendenza avvenga anche qui, in Italia, con l’abrogazione della 194. Fintanto che essa permarrà nell’ordinamento giuridico – con la conseguente portata culturale – non si potrà sperare in una autentica tutela della vita umana innocente.