Che Napoli fosse sempre stata nelle intime corde del professor Pucci Cipriani lo sapevamo, ma non potevamo immaginare che questo amore per la Capitale del Sud arrivasse ai vertici di lirismo che leggiamo nella sua più recente pubblicazione Napoli Città del Trono e dell’Altare – Omaggio alla Capitale del Regno delle Due Sicilie (Solfanelli, Chieti 2022). Un lirismo tale da far diventare questo agile e svelto saggio una vera e propria canzone dedicata a Napoli.
Gli anni trascorsi a Napoli come docente in varie scuole della città, hanno lasciato nell’animo del Professore un’impronta che trascende la memoria e si fa ricordo, quell’amalgama superiore di intelletto e di sentimento. Grazie ai suoi ricordi, Pucci Cipriani fa rivivere Napoli e le sue molte anime, Napoli e i suoi luoghi, Napoli e i suoi amici di allora, Napoli e tutta la sua «napoletanità», e tutto questo fa trascendere nell’eternità perché solo il ricordo suscita perdita e nostalgia, che attengono al sacro della vita.
Napoli Città del Trono e dell’Altare non è dunque un libro di memorie ma di ricordi.
Si tratta di un saggio nel quale Pucci Cipriani indaga con occhio spietato la Napoli di oggi, per leggerla nuovamente nel ricordo dolce e sincero del suo passato monarchico di Capitale di una Borbonia felix dove l’aristocratico e il popolano avevano il medesimo senso religioso della vita, dove l’aristocratico e il popolano si riconoscevano entrambi nel loro Re e nelle istituzioni monarchiche e le amavano, dove le differenze sociali erano ancora ispirate al valore della dignità cavalleresca, cortese e morale, valori che la propaganda dell’invasore piemontese aveva contraffatto e fatto passare per degrado e arretratezza culturale e civile di tutto il Sud.
A questo proposito voglio solo accennare al fatto che prima dell’Unità, il Sud e la Sicilia erano una vera e propria potenza industriale a livello europeo. Le prime a sorgere nel Meridione furono le industrie tessili, cui seguirono le chimiche e le metallurgiche. Aggiungo che Re Ferdinando II (1810-1849) promosse quanti altri mai l’iniziativa privata favorendo le società commerciali con azionariato diffuso che permise il coinvolgimento societario fino ai ceti medi, abituandoli alla mentalità del rischio d’impresa. Verso la metà del XIX secolo la Campania divenne la regione più industrializzata d’Italia e, complessivamente, la parte continentale del Regno contava nel 1860 quasi 5000 opifici.
La «(ri)scoperta di questo patrimonio immortale» che è Napoli, come suggerisce don Gabriele D’Avino nella sua Presentazione, avvenne nel 2018 grazie ad un viaggio che potremmo definire iniziatico di Pucci Cipriani con alcuni suoi giovani discepoli.
Fin dall’arrivo alla stazione di Napoli i nomi di oggi e di ieri cominciano a rincorrersi e il Professore ha un balzo al cuore, «come ogni volta, nel rivedere quel mio quartiere dove ho abitato gli ultimi due anni dei miei quattro di insegnamento a Napoli…, sì via Bologna, nel quartiere della Ferrovia, insomma piazza Garibaldi come fu ribattezzata, dopo la colonizzazione risorgimentale, piazza Stazione».
Di fronte ad una città che nel frattempo «è diventata un suk, un agglomerato afro-arabo disordinato», sembra sparito il «napoletano-tipo» dotato di quella cortesia, delicatezza e senso di devoto rispetto che solo a Napoli trovavi, anche nel saluto fra sconosciuti: «Che a’ Maronna v’accumpagne».
Ma poi, seppur di fronte allo scoraggiante spettacolo odierno, come i grani di un rosario guidato dal Professore, si ergono oggi come ieri «i luoghi» della Fede e della Tradizione napoletana: il Duomo, simbolo della devozione a San Gennaro e al miracolo del suo sangue che puntualmente si liquefa in certi giorni dell’anno liturgico; la chiesa di Santa Caterina in Formiello, che racchiude parte delle spoglie degli Ottocento Martiri di Otranto uccisi dai Turchi nel 1480 per non aver rinnegato la fede cattolica, a perenne monito di un Oriente islamico sempre alla ricerca di una sua cruenta espansione in Italia e in Europa; e poi ancora il munasterio ‘e Santa Chiara, caro a tutti i napoletani (e non solo), con le sue innumerevoli cappelle e col toccante ricordo personale del Professore che nel 1984, con altri amici monarchici, era lì presente ad accogliere le spoglie di Francesco II, l’ultimo Re delle Due Sicilie. E sempre nel monastero di Santa Chiara, la tomba del Servo di Dio il giovane vicebrigadiere dei Carabinieri Salvo D’Acquisto, immolatosi per evitare la rappresaglia nazista contro ventiquattro inermi cittadini.
Il percorso del Professore e dei suoi giovani allievi prosegue con la Piazza del Mercato dove nel 1268 fu ucciso il giovane Corradino di Svevia, sceso a Napoli per rivendicare il Trono e giustiziato dagli usurpatori Angioini; e quindi la Chiesa del Carmine, con la devozione del 16 luglio alla «Madonna Bruna», che fu baluardo spirituale dei popoli meridionali prima e dopo la tempesta anticattolica e anticlericale del Risorgimento italiano.
Ecco, il manipolo degli ospiti toscani ora è finalmente entrato in Duomo per assistere al miracolo di San Gennaro, che puntualmente avviene. Grande e autentica la gioia del popolo e di quella parte del clero più giovane che vi ha assistito degnamente parato come si conviene, a differenza dei sacerdoti più anziani, quelli che in gioventù erano stati gli entusiasti del Vaticano II, ridotti ora a un insieme discutibile di cialtroneria esteriore che non fa ben sperare in una migliore nel foro spirituale.
Stesso stridente contrasto anche in quel gioiello barocco che è la chiesa di San Gregorio Armeno, che ospita le spoglie di Santa Patrizia che, se anche meno famosa di San Gennaro, compie ogni anno lo stesso miracolo della liquefazione del proprio sangue. Luogo veramente venerabile e degno di rispetto per la memoria di quella Santa particolarmente amata dai fedeli napoletani (e non solo). Anche qui, il clima di devozione viene turbato da scomposte (dis)armonie di chitarra da parte di zelanti religiose.
Infine, Napoli e il mistero della morte, vissuta sempre dalla sua gente con dolore sì, ma non con disperazione, magari con ironia ma mai con indifferenza. In questo rapporto affettuoso del napoletano con la morte, ecco spiegato il culto delle «animelle pezzentelle», di quelle anime abbandonate nelle fosse comuni, senza un nome o un culto, la cui traccia è ancora visibile nella chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, che costituisce infatti un’altra tappa di questo affascinante percorso nel cuore di Napoli.
La rivisitazione di Napoli non poteva fermarsi solo ai luoghi.
Tanti sono gli amici napoletani della Tradizione ricordati da Pucci, ognuno per i suoi meriti e sempre presenti, dal giurista Enzo Gallo, a Bruno Fitchman, ai fratelli Gennaro e Angelo Ruggiero, all’amico per eccellenza, Silvio Vitale, il fondatore della rivista tradizionalista L’Alfiere, ancor oggi strumento efficacissimo di trasmissione del pensiero tradizionale e cattolico.
E poi il sodalizio che dette origine al movimento Fede e Libertà e al giornale Fedeltà che a sua volta formò i quadri locali della Tradizione Cattolica, a custodia della Messa di sempre in rito romano antico, uno dei frutti della quale è don Gabriele D’Avino al quale si deve la Presentazione di questo saggio.
Tanti altri gli amici ricordati, napoletani e non, e tutte figure interessanti di intellettuali testimoni e interpreti della Tradizione cattolica.
Due ricche appendici coronano questo appassionato racconto della Capitale del Sud: una breve riflessione sul brigantaggio e una testimonianza sulla “Fedelissima” Civitella del Tronto, ultimo baluardo pontificio ed emblema degli Stati del Sud contro l’avanzata dei risorgimentali, il cui ricordo annuale costituisce – si può dire – il distillato della vita stessa di Pucci Cipriani.
L’Autore si sofferma sul vero Brigantaggio, quello lealista fatto dai «partigiani del Re», e sulla figura di José Borjes, un “eroe romantico” le cui gesta appassionano al pari di un romanzo storico o agiografico.
La commovente resistenza di un pugno di uomini a Civitella del Tronto, “la Fedelissima”, è una delle pagine più eroiche dell’«Antirisorgimento»,alla cui annuale rivisitazione il professor Cipriani ha dedicato la vita, la mente e il cuore, scrivendo e divulgando la resistenza di Civitella contro i feroci invasori piemontesi e aprendo a una sempre più vasta platea – soprattutto di giovani – la conoscenza di un mondo del Sud pieno di fede, di coraggio, anche di tradimenti, ma certamente di resistenza fino all’ultimo uomo nel nome del Cattolicesimo e della Monarchia del Sud.
Ascanio Ruschi ci richiama nella postfazione al fatto che la Napoli di Pucci Cipriani è «una Napoli ideale, ma non idealizzata, che a tratti sembra sparire, come un bell’acquarello del golfo di Napoli disciolto dalla pioggia corrosiva della modernità». Ruschi ha ragione, perché proprio per reazione all’agente corrosivo della modernità, questo saggio “ha il merito di farci amare di nuovo, o forse di più, Napoli”.E quindi, nonostante tutto, si rivelano ancor oggi vere e attuali le parole di Wolfgang Goethe, che di Napoli fu un grande conoscitore ed ammiratore: «Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate…Io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi!»