Mors tua vita mea, un contributo alla confusione

Mors tua vita mea – il fine non giustifica i mezzi
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(Emmanuele Barbieri) Avevamo una certa attesa per il libro di recente pubblicazione, a cura del professor Massimo Viglione, Mors tua vita mea – il fine non giustifica i mezzi, con sottotitolo Sulla illiceità morale dei vaccini che utilizzano linee cellulari di feti vittime di aborto volontario (Edizioni Maniero del Mirto, pp. 334, 28 euro). Cercheremo di spiegare distesamente perché questa attesa è stata delusa.

Il testo raccoglie i contributi di 20 autori eterogenei per estrazione e livello culturale, ma soprattutto per idee diverse su molteplici fronti, ivi compreso quello della vaccinazione in sé, tanto che lo stesso curatore, nella sua presentazione, ha dovuto precisare che «è ben possibile che vi siano in qualche contributo alcune affermazioni non pienamente condivisibili» (p. 13). Ciò non rafforza certo la tesi di fondo che dovrebbe accomunare questi autori: la «dimostrazione della illiceità morale dei vaccini anti-Covid che utilizzano linee cellulari di feti vittime di aborto volontario» (il tondo è per rimarcare la gravità del termine e l’impegno che comporta un tale proposito).

Già qui riscontriamo come non sia centrato il problema di fondo, che non è definire l’illiceità morale dell’utilizzo delle linee cellulari, su cui si è espressa con chiarezza la Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF), ma piuttosto di interrogarsi sulla liceità morale, da parte del vaccinando, nell’usufruire di vaccini che hanno previsto, in almeno una delle fasi del loro sviluppo, l’utilizzo di tali linee (neretto nostro).

Sembra che, invece, questo punto sia stato a piè pari trascurato in ogni singolo contributo del libro, come se, dall’illiceità dell’uso delle linee cellulari nei vaccini discendesse ipso facto una illiceità della fruizione di tali vaccini da parte delle persone in qualunque circostanza e per qualunque fine. Tale automatismo non può essere assolutamente dato per scontato, tant’è che non si conosce nessun serio specialista di teologia morale che condivida la tesi di fondo di questa collettanea.

Basterebbe questo per concludere che il libro ha fallito il colpo. Ma vogliamo entrare più direttamente nel merito e se ci mostriamo esigenti nel giudizio è perché, non dimentichiamolo, il volume si presenta come antitetico ad una posizione espressa in più di un’occasione dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Tale posizione non è in sé infallibile, tuttavia, trattandosi di Magistero ordinario della Chiesa si esige, nel rifiutarla, una forza di pensiero e una documentazione maggiore di quella che si richiederebbe a chi del Magistero vuole farsi eco.

Un’ultima considerazione globale riguarda il pubblico a cui è rivolto il testo. Il curatore, nella pagina iniziale della presentazione, afferma che “questo libro si rivolge, anzitutto e in via precipua (ma non esclusiva), ai cattolici fedeli al Magistero di sempre della Chiesa, ovvero a coloro che si pongono problemi di natura morale sull’utilizzo di questi vaccini contaminati”.

In realtà i princìpi morali non appartengono al dominio della fede, ma a quello della buona filosofia, e non riguardano una ristretta cerchia di iniziati, ma ogni uomo di buona volontà, a meno di non voler ridurre i tradizionalisti a un élite interna alla Chiesa, capace di discernere i problemi morali che il senso comune dei cattolici non percepisce.
Ciononostante, visto l’ambizioso obiettivo del libro, ne abbiamo affrontato la lettura, pensando che ci fosse stato un serio sforzo “per riflettere, serenamente e argomentatamente, su una questione di capitale importanza” (p. 12). Purtroppo abbiamo dovuto constatare che così non è stato tanto per i toni utilizzati da parte di alcuni autori, quanto per il limitato numero e la scarsa qualità delle argomentazioni apportate.
Per ragioni di sintesi dovremo limitarci solo ad alcune specifiche considerazioni, concentrandoci su ciò che ci sembra più meritevole d’attenzione.

Tralasciamo la prefazione del volume, firmata da Sua Eccellenza mons. Carlo Maria Viganò. Ci auguriamo solo che egli non ne sia il vero autore, e non aggiungiamo altro.
Il libro si apre con una sezione dedicata all’ambito teologico-morale con tre articoli, rispettivamente di mons. Athanasius Schneider, don Curzio Nitoglia e dom Giulio Meiattini OSB. I primi due contributi sembrano fraintendere la tesi di fondo della CDF. Addirittura, don Nitoglia si spinge a dire che certi teologi morali e la stessa CDF, da una parte renderebbero “lecito nei vaccini l’impiego di linee cellulari fetali” (p. 37) e considererebbero “l’aborto un bene necessario obbligatorio” (p. 39), mentre tutti sanno che la Congregazione si è espressa favorevolmente alla moralità della fruizione dei vaccini da parte dei cattolici, ma non certo sulla possibilità di usare nella ricerca linee cellulari provenienti da aborti. Tant’è che lo stesso dom Meiattini, nel successivo contributo cita in merito la Nota del 2020 che così afferma: “l’uso lecito di questi vaccini non comporta e non deve comportare in alcun modo un’approvazione morale dell’utilizzo di linee cellulari procedenti da feti abortiti” (n. 4).

Sia mons. Schneider che don Nitoglia, come successivamente altri autori (es. Cristiano Lugli, p. 231, p. 235, Daniele Trabucco, pp. 248-249, Francesco Lamendola, pp. 265-266), cadono in un errore che già precedentemente avevamo svelato, circa l’effettiva presenza di cellule fetali all’interno dei vaccini anti-Covid (pp. 29-30, 40). Non intendiamo ritornare nuovamente sull’argomento, ma ci lascia quantomeno perplessi che anche di fronte all’evidenza dei fatti, si continui a sostenere tale tesi, priva di qualsiasi supporto scientifico.

Il contributo di dom Meiattini sembra avere un approccio più equilibrato di quello di don Nitoglia nei confronti dei pronunciamenti magisteriali, limitandosi a mettere in dubbio che sussista una condizione di effettivo grave pericolo che giustifichi l’utilizzo di vaccini non etici. Come se oltre 208 milioni di casi accertati e 4 milioni e 400.000 morti nel mondo non fossero un motivo sufficiente (dati OMS). Senza poi contare tutte le morti indotte e non direttamente riconducibili al Covid, ma ugualmente reali, che vengono tracciate dall’ISTAT e che, da un confronto rispetto ai trend di anni precedenti, offrono un quadro davvero preoccupante per il nostro paese. Si afferma anche che gli attuali vaccini non avrebbero superato, «nelle modalità previste, tutte le fasi regolamentari d’obbligo per ogni approvazione» (p. 52), mentre l’ISS ha smentito tale tesi.

L’ambito successivo è quello storico, contenente i contributi del professor Massimo Viglione e di John Henry Westen, direttore di LifeSiteNews. Lo storico però non ricostruisce la storia del virus e il giornalista non ne investiga la natura. Entrambi esprimono delle convinzioni personali che non solo non sono suffragate, ma spesso sono smentite dai fatti, come quando il prof. Viglione afferma che il virus non è mai stato isolato (p. 71) mentre il virus è stato isolato in gennaio in Cina e in febbraio in Italia, allo Spallanzani.

L’ambito filosofico-morale raccoglie i contributi del professor Giovanni Turco, della professoressa Clara Ferranti e dell’avvocato Gianfranco Amato. Il professor Turco, per mettere in discussione l’esistenza della pandemia e delle conseguenze che sta avendo a livello globale, afferma: «Il fatto che determinate ricostruzioni siano riconducibili a pareri provenienti da esponenti di istituzioni statali o da enti di rilievo nazionale e internazionale, non costituisce di per sé un argomento scientifico (né, a maggior ragione, filosofico o teologico)» (p. 110). Ora è vero che i dati forniti da istituzioni statali, o enti di rilievo nazionale ed internazionale, quali l’ISS, l’ISTAT, l’AIFA, l’EMA, la FDA, potrebbero essere messi in discussione, ma solo a condizione di avere a propria volta dei dati scientificamente più sicuri da poter opporre. E questo non è certamente competenza di un filosofo. Fino a prova contraria dunque, i dati delle autorità sanitarie nazionali e internazionali rimangono gli unici a nostra disposizione per indagare quanto sta accadendo nel nostro paese, in Europa e nel mondo. E non vi sono validi motivi, al di là di supposizioni personali (che, come ricordato dallo stesso prof. Turco poco prima, non costituiscono un argomento) per poter ritenere che tali dati vengano intenzionalmente manomessi e falsificati per renderli concordi alla “narrazione dominante”.

Mettere poi in discussione il principio di autorità, come viene fatto successivamente, può essere un’arma a doppio taglio, perché mentre è certamente vero che anche l’autorità in un determinato campo può sbagliare, è altrettanto vero che non v’è persona più titolata per poter parlare dell’argomento di cui è competente. Se poi sbaglia, si può certamente dimostrare dove sia l’errore. Dubitiamo che, ad esempio, qualora si debba scegliere un medico col quale fare un delicato intervento chirurgico, si scelga il meno autorevole.
A questo punto il prof. Turco getta dei dubbi sugli studi relativi ai vaccini anti-Covid, in quanto presumibilmente viziati dall’interesse di chi li conduce, in quanto «provengono direttamente o indirettamente da attività connesse alla preparazione, alla sperimentazione e alla produzione, promosse dalle medesime aziende titolari di tali attività. In tal senso si profila una situazione dove, quanto a tali preparazioni, sperimentazioni e produzioni, esse testimoniano per se stesse e su se stesse» (p. 114). Questo è vero solo fino ad un certo punto. È risaputo che, nell’attuale panorama scientifico, perché un articolo possa essere pubblicato a Congresso o su Rivista, deve prima passare attraverso un processo di Peer Review in cui due o più revisori, scelti appositamente per non creare conflitti di interessi, analizzano il lavoro e ne evidenziano le criticità sulla base di criteri standard (come ad es. la riproducibilità, la ripetibilità degli esperimenti ecc.). Molte riviste prevedono addirittura che i lavori vengano sottoposti a tale processo senza che i revisori conoscano i nomi degli autori, proprio per evitare trattamenti di favore o sfavore (è il caso del c.d. “doppio cieco”). È presumibile pensare che ciò sia avvenuto anche ad alti livelli e, proprio per questo, con maggiore cura e attenzione, vista la delicatezza dell’argomento.

Un simile pregiudizio negativo nei confronti dell’attuale assetto del mondo scientifico, che indubbiamente non è esente da problematiche, emerge anche quando si afferma che il valore terapeutico di certi prodotti deve risultare «in modo obiettivo e verificabile, e non in maniera assertoria e convenzionale, né come pura inferenza statistica» (p. 117). Ma purtroppo dobbiamo essere coscienti che la scienza moderna, ben lontana dalla scienza di concezione medievale, ha un fortissimo e ineludibile retaggio statistico. Ciò però non implica che non si possa arrivare a delle conclusioni certe. Se si rifiuta aprioristicamente una conclusione scientifica solo perché risulta da un’inferenza statistica, dovremmo buttare anni e anni di ricerca scientifica, soprattutto in ambito medico.

Immediatamente dopo il professor Turco sostiene che «la stessa tesi dell’esclusivismo vaccinale come soluzione terapeutica, rispetto alla patologia eventualmente indotta dal virus» comporterebbe una «conseguente marginalizzazione di altre terapie precoci (domiciliari)». Ma, ci chiediamo, così come potrebbe sfociare nell’ideologia la pretesa che il vaccino sia l’unica soluzione, non si rischia altrettanto con un pregiudizio positivo sulle terapie domiciliari?

Su queste, quantomeno in questo capitolo e nel libro, non sembra delinearsi, come per i vaccini, la doverosità di un’indagine circa possibili eventi avversi, benefici e liceità. Soprattutto rispetto a quest’ultima, abbiamo mostrato come il legame con le linee cellulari di cui si è tanto parlato non è inferiore a quello di certi vaccini.

A questo punto però, vorremmo soffermarci sulla seguente frase: «Il bene della vita, e della vita degnamente vissuta è certamente superiore al bene della salute» (p. 115, il neretto è nostro).

Il prof. Turco è autore di un ottimo volume su Dignità e diritti. Un bivio filosofico-giuridico (Giappichelli, Torino 2017) in cui chiarisce gli equivoci del continuo riferimento moderno al termine di “dignità”. Viene da chiedersi perché, in questo caso, abbia voluto usare l’espressione «vita degnamente vissuta». Il bene della vita non contiene già in sé stesso la dignità (ontologica) della vita stessa? Sono domande a cui sarebbe bene dare risposta, soprattutto in un momento come quello attuale dove nel nostro ordinamento giuridico il bene della vita e la dignità della vita sono stati disgiunti (es. art. 1 della legge 219/17 sulle DAT) e dove oramai lo spettro dell’eutanasia attiva si avvicina sempre di più nel nostro paese.

Quanto all’intervento della professoressa Ferranti ci limitiamo a constatare che, a parte un pregiudizio favorevole nei confronti dell’Umanesimo (dei cui danni non possiamo parlare in questa sede), il suo intervento è complessivamente buono ma non si vede il suo effettivo contributo nella dimostrazione della tesi presentata dal curatore.

Il saggio scritto dall’avvocato Gianfranco Amato si apre con una breve dissertazione sulla deriva gesuitica a causa della quale molti cattolici hanno sposato il detto machiavellico «il fine giustifica i mezzi» (sottotitolo dato al libro per volere dello stesso Amato). La critica si rivolge ad un sacerdote gesuita, padre Busembaum, forte sostenitore della casuistica gesuitica, il quale arrivò a sostenere «che anche la menzogna e la violenza possono essere giustificabili se hanno come finalità quella di salvare una vita umana o la religione, valori considerati come beni superiori» (p. 144). Tale critica, inserita nel contesto del libro, è volta a convincere il lettore che certi “sofismi gesuitici”, applicati al mondo scientifico e specificamente alla situazione pandemica, hanno prodotto un cedimento generale del mondo cattolico. L’avvocato Amato probabilmente ignora che padre Hermann Busembaum della Compagnia di Gesù (1600-1668) è autore di un’opera che costituisce la base della teologia morale di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Dottore della Chiesa. Le Adnotationes alla Medulla theologiae moralis del padre Busenbaum, composte da sant’Alfonso de’ Liguori, apparvero a Napoli nel 1748. La seconda edizione dell’opera, pubblicata nel 1753, portava il titolo di Theologia moralis. In quest’opera sant’Alfonso cita l’espressione del padre Busenbaum, «cum finis est licitus, etiam media sunt licita», non come principio di carattere generale, ma semplicemente per affermare la liceità di fuggire dal carcere, ingannando i custodi, per chi fosse stato ingiustamente condannato (Theologia Moralis, vol. VI, Marietti 1827, p. 468). Il principio machiavellico secondo cui «il fine giustifica i mezzi», è totalmente estraneo alla morale liguoriana e a quella ignaziana.

Successivamente l’avv. Amato afferma che «a prescindere dal fatto che sia o meno peccato mortale somministrare o assumere volontariamente una terapia la cui produzione ha richiesto l’uso di cellule umane ricavate dalla soppressione di persone in età prenatale, resta un sacrosanto dovere di ogni cristiano e di ogni persona di buona volontà dichiarare il proprio giudizio netto e forte sull’illiceità di tale terapia e dare testimonianza rifiutando recisamente il prodotto ottenuto dall’immonda strumentalizzazione della vita umana innocente» (p. 149). Qui potrebbe emergere una contraddizione: da un lato sembra si stia affermando che stabilire se sia o meno peccato mortale somministrare e ricevere i vaccini anti-Covid non sia dirimente, dall’altro, senza apportare argomentazioni a favore di tale tesi, si attesta il dovere di un giudizio netto sull’illiceità dei vaccini arrivando a rifiutarli in toto. Ora, alcuni atti (detti “materiali”), in sé non dicono nulla della liceità o dell’illiceità di se stessi. Figuriamoci le cose materiali! E il vaccino, in sé, è una cosa. Come può una cosa essere illecita? Può essere illecito solo un atto che faccia uso di tale cosa. Così come un coltello, in sé non è illecito o lecito, ma piuttosto si può dire che l’uso di tale oggetto può essere illecito (es. accoltellare qualcuno per ucciderlo), o lecito (es. tagliare delle fette di pane per distribuirle ai poveri e nutrirli). È proprio questo che insegnava san Paolo quando affermava che il male non sta nelle cose o nella materia in quanto tale, bensì negli atti e nelle intenzioni. Tale principio risiede nel fatto che il male ontologicamente non esiste, ma è definibile solo come privazione del bene. Dunque, tutto ciò che esiste è in sé buono e orientato ad un fine: il male emerge quando non si usa delle cose secondo il fine per cui esistono.

Sebbene vi sarebbe altro da dire, ci soffermiamo da ultimo su un’affermazione dell’avvocato Amato verso la fine del suo contributo che recita: «[…] per ricavare l’agognata sostanza (il vaccino ndr.) occorre effettuare una vivisezione che porti alla morte di quell’uomo (il bambino nel grembo materno ndr.), il quale, peraltro, non ha nessuna intenzione di farsi uccidere» (p. 156, il neretto è nostro). Di questa frase ci preme sottolineare il rafforzativo finale e ci domandiamo: perché fare questa precisazione? Forse si sottintende che, qualora sussistesse l’intenzione di farsi uccidere, si avrebbe a che fare con una fattispecie morale meno grave o addirittura lecita? Speriamo vivamente di no, altrimenti diverrebbe problematico porre argomentazioni contro l’eutanasia (vd. omicidio del consenziente).

Il successivo ambito trattato nel libro è quello scientifico-morale, con gli articoli del dottor Paolo Gulisano, della dottoressa Pilar Calva Mercado, di Wanda Massa e di Cristiano Lugli.

Rileviamo da principio che l’intervento di Paolo Gulisano non ha un carattere scientifico, bensì si limita a contestare le recenti politiche del Vaticano sulla vaccinazione. Politiche che possono non essere condivisibili, ma tutto questo nulla aggiunge agli scopi che si prefigge il libro dato che si confondono nuovamente aspetti di carattere scientifico (efficacia e sicurezza dei vaccini) con quelli di carattere prettamente morale (giudizio sull’uso delle sopramenzionate linee cellulari).

D’altro canto, la dottoressa Calva Mercado fa un’interessante e documentata disamina sulla natura dei vaccini, sull’avvento delle nuove tecnologie che hanno permesso lo sviluppo di vaccini a mRNA, nonché sull’uso di linee cellulari fetali e dei diversi tipi di vaccini esistenti (pp. 171-185). Successivamente passa ad una trattazione più specificamente morale, richiamando, seppur in maniera molto rapida, le fonti della moralità degli atti umani (oggetto, intenzione, circostanze), per poi applicarli alla questione vaccinale. Giustamente, afferma che la somministrazione del vaccino è in sé un bene e dunque un primo criterio per capire chi può ricevere il vaccino è quello dell’analisi costi-benefici. Quando la dottoressa arriva a discutere circa la moralità dell’uso di linee cellulari provenienti da feti abortiti, nella sezione dedicata alla “cooperazione al male”, cita una teologa morale, Janeth Smith, che riporta la questione sui giusti binari parlando, in termini più precisi, di “appropriazione del male” piuttosto che di cooperazione. Per una trattazione più approfondita di questo aspetto, rimandiamo il lettore ad un articolo ben documentato del professor Stephan Kampowski. Paradossalmente, per provare a supportare la propria tesi secondo cui non è lecito usare vaccini derivati da tali linee cellulari, la dottoressa Calva Mercado finisce per dare credito alla tesi opposta in una sorta di eterogenesi dei fini.

Il capitolo della dottoressa Wanda Massa a tutti gli effetti si potrebbe dire un notevole lavoro di investigazione e reperimento delle fonti, animato da buoni sentimenti di difesa della vita umana innocente. In tale capitolo, si mostra la storia degli orrori perpetrati ai danni dei bambini nel grembo materno al fine di utilizzare tessuti fetali nella ricerca scientifica. Certamente tutto questo va fermamente condannato, ma è dirimente per stabilire se un medico che somministra il vaccino o una persona che lo riceve stanno commettendo un illecito morale? Non è sufficiente elencare gli orrori perpetrati nel mondo (e che talvolta potrebbero non avere un nesso causale con i vaccini anti-Covid) per dimostrare una dottrina morale, come si propone tale libro. Il lettore, pur provando un naturale ribrezzo per quanto accade nel mondo, non può essere da questo spinto ad accettare la tesi morale secondo cui la vaccinazione sarebbe un atto illecito. Perché, ripetiamo, qui nessuno di noi mette in discussione che l’utilizzo di quelle linee sia illecito, qualunque fine si prefigga chi le usa. Né tantomeno si mette in discussione il grado di malvagità di un mondo che ha de-umanizzato il concepito. Stiamo solo cercando di capire se si possa davvero parlare di illecito morale nell’atto di somministrare/ricevere il vaccino e se tale atto si configuri come appropriazione del male o come cooperazione ad esso.

Sul capitolo di Cristiano Lugli, ci limitiamo a rilevare che i contenuti sono già stati proposti da altri autori nell’opera e se riproposti pleonasticamente non rafforzano certo le tesi esposte.

Da parte sua, nella parte del libro dedicata all’ambito giuridico, il prof. Daniele Trabucco dapprima commenta la Nota della Congregazione della Dottrina della Fede, ma poi sembra confondere i piani della liceità dell’uso delle linee cellulari e della liceità di somministrazione/ricezione del vaccino (peraltro continuando pertinacemente ad affermare che i vaccini contengono cellule fetali …). Dopo di che, facendo impropriamente uso del testo di teologia morale di Giuseppe Mausbach, solleva problemi di costituzionalità relativamente all’obbligo vaccinale per i medici. Nessuno mette in dubbio la competenza giuridica del prof. Trabucco, ma prima di inoltrarsi nel campo della teologia morale dovrebbe approfondire l’argomento con la lettura di testi classici (ad esempio la Philosophia moralis del padre Cathrein) o moderni, come l’ottimo volume del padre Ramon Garcia de Haro, La vita cristiana. Corso di teologia morale fondamentale (Ares, 1995).

Altrettanto imprudente ci sembra l’incursione nell’ambito teologico del prof. Francesco Lamendola che, nella sezione ecclesiastica, fa un improbabile paragone tra l’atteggiamento (errato) della Chiesa di accettazione della donazione degli organi e del criterio di morte cerebrale e l’attuale accettazione della vaccinazione anti-Covid. Suggeriamo al professore la lettura del libro Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita? (CNR-Rubettino, 2007) in cui studiosi del calibro dei professori Robert Spaemann, Wolfgang Waldstein e Josef Seifert, tutti membri della Pontificia Accademia per la Vita, assieme ad altri eminenti scienziati, contestano la nuova definizione scientifico-ideologica di morte cerebrale alla luce della philosophia perennis e del Magistero della Chiesa. Però non è un caso che nessuno di questi autori abbia contestato la Pontificia Accademia per la Vita quando, nel 2005 essa giudicò lecito l’uso dei vaccini provenienti da linee cellulari che avessero utilizzato feti abortiti.

Essi avevano ben compreso che tra la morte cerebrale e la vaccinazione c’è una differenza di fondo che ad alcuni autori di questo volume sfugge. Nel caso della morte cerebrale, il medico che espianta un organo, compie un atto che direttamente provoca la morte del paziente ed è dunque, in sé stesso malvagio. Nel caso di chi inocula o riceve il vaccino l’atto non produce in sé stesso alcun male ma, come spiega la CDF, ci troviamo di fronte a una cooperazione al male indiretta e remota e perciò lecita a fronte di una ragione grave.
Il volume che stiamo analizzando riporta poi una testimonianza dell’avvocato Marilena Maioli, la quale racconta di come il figlio abbia subito diversi danni a causa dei vaccini (ma non quelli anti-Covid). Il problema di tale testimonianza non è la testimonianza in sé, della quale nessuno mette in dubbio la veridicità. Piuttosto va rimarcato il fatto che (1) il caso presentato è molto particolare in quanto, per ammissione stessa della Maioli, il figlio è risultato portatore di una mutazione enzimatica MTHFR omozigote C677T e ciò avrebbe comportato le problematiche insorte dopo le vaccinazioni (pp. 277-278), (2) i casi particolari non aiutano a delineare i principi morali, che hanno invece una natura generale e men che meno a suffragare tesi morali. Lo scopo di una tale testimonianza sarebbe quello di dimostrare che i vaccini hanno effetti avversi? Nessuno lo ha mai negato. Nessun farmaco e nessuna terapia sono esenti da rischi, incluse le terapie domiciliari di cui più autori in tale libro hanno decantato i benefici. Ma non era questo l’intento iniziale del libro che infatti non voleva toccare l’argomento dei vaccini in generale, ma specificamente una questione morale ben delineata e particolare relativa ai vaccini che usano linee cellulari di feti abortiti.

Non entriamo nel merito degli altri contributi, ma ci limitiamo ad un’osservazione finale di metodo: è vero, come a più riprese è stato ricordato da alcuni autori, che bisognerebbe insistere per la produzione di vaccini e farmaci completamente etici. Tuttavia, se ci si ostina pervicacemente a difendere tesi estranee alla morale cattolica e all’evidenza scientifica si rischia di rinchiudersi in una “bolla pregiudiziale” che squalificherebbe chiunque in futuro dovesse anche solo tentare di sollevare la questione. La stessa battaglia antiabortista rischia di essere liquidata come “no-vax”, se fosse accompagnata da tesi come quelle difese in questo libro. Nel campo scientifico e culturale non è il numero delle pagine, ma la bontà delle ragioni a imporsi. E duole constatare che il volume Mors tua, vita mea abbia mancato l’obiettivo, contribuendo a una maggiore confusione su questo tema.

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