L’anello debole dell’Egitto

L’anello debole dell’Egitto
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Le lente aperture di credito dell’Egitto a Israele delineano una serie di interrogativi ai tavoli dei decisori politici di Washington. Certo, è vero che è stato più Israele a farsi ‘fagocitare’ dai richiami della narrativa filo-araba, consacrata, tra incenso e diplomazie, dagli Accordi di Abramo (2020-2021) che non gli Stati coinvolti: Bahrain, Emirati, poi Marocco e Sudan. Era il governo in carica a Gerusalemme, tendenzialmente liberal a cercare aperture in nome di viaggi all’estero (Emirati Arabi), lontani richiami di comuni appartenenze (la comunità ebrea in Marocco, peraltro ridotta ai minimi storici dopo le migrazioni degli anni Sessanta dai 130mila ebrei in Marocco a inizio Ottocento).  Le intese diplomatiche erano trainate, quando non dettate e imposte, da accordi economici – non di business. La differenza è sostanziale: un accordo economico è stipulato e calato in una prospettiva più breve rispetto a quello concepito per il business, e non tiene conto dei prerequisiti securitari. Aprendo ai Paesi arabi, Israele ha venduto loro sistemi di sicurezza (Pegasus per le intercettazioni, impiegato dal Marocco, dall’Egitto e dall’Arabia Saudita per reprimere il dissenso) ricevendo in cambio dal Marocco attacchi cyber nel corso dell’ultimo mese, dall’Arabia Saudita, un passo indietro nella “normalizzazione” dei rapporti in nome dell’eterna questione palestinese, giunti che si era a settembre al momento topico di una possibile intesa.

Questi fatti, se messi in serie, sembrano meno preoccupanti rispetto all’analisi caso per caso, Paese per Paese dall’Estremo occidente marocchino fino all’Arabia Saudita. Il Marocco, in un’epoca lontana solo due anni fa ma che sembra irrimediabilmente remota, aveva riconosciuto ufficialmente Israele diventando il sesto Paese della Lega araba a normalizzare le relazioni con esso. Gli Stati Uniti avevano chiarito e sancito le esigenze di Rabat sul Sahara occidentale con parole ferme nella dichiarazione congiunta: «gli Stati Uniti riconoscono la sovranità marocchina sull’intero territorio del Sahara occidentale e riaffermano il loro supporto alla proposta marocchina di un’autonomia seria, credibile e realistica quale unica base per una soluzione giusta e durevole della disputa su quei territori». Oggi tutto questo è messo in pericolo dalle aperture marocchine alla Cina (stesso discorso vale per il porto di Haifa controllato dai cinesi) e il confine con l’Algeria rischia di riaccendersi presto (al Nord dell’Algeria il MAK autonomista guidato dalla longa manus marocchina è un’arma a doppio taglio). 

Più grave è la situazione di El Sisi, in Egitto, che non conta più sul piano internazionale e ora con la guerra in corso andrà probabilmente nel dimenticatoio. Quindi per non soffrire a nostra volta di smemoratezza poniamo mente al fatto che nei 18 mesi seguiti alla “Primavera” del 2011 l’Egitto aveva conosciuto solo incertezza politica e transizioni democratiche di breve durata, con interludi a guida militare e poi dei Fratelli Musulmani. Sisi si presentava invece, col suo basso profilo militare, una certezza a livello popolare. Peccato che per una politica senza programmazione gli egiziani nel giugno 2023 spendevano il 70 in più rispetto al giugno dell’anno prima per fare la spesa di prodotti base – grano, carne, pollame, pesce, frutta. Queste sono le situazioni che non si riformano da sé, che non preludono alla formazione di un’opposizione solida nel tempo (sono passati più di dieci anni dall’ascesa di Sisi e ancora non se ne vede traccia di alternative) e resta solo l’esplosione violenta per reagire alla spesa con le carriole, o con le borse di cuoio come nelle foto dei tempi di Weimar.

Come ha scritto Steven Cook su Foreign policy, Sisi non ha corrisposto in più di dieci anni alla pazienza concessagli dal basso: «l’inflazione è al 37, servono 30 sterline egiziane per un dollaro (mentre ne occorrevano 7 quando Sisi salì al potere). Il debito è di 163 miliardi a livello internazionale e si calcola che nel 2023 esso corrisponderà al 93 del PIL». Come spostare il denaro sotto le conchiglie, annota l’analista: noi diremmo “sotto i bicchieri”. L’Egitto è quindi un caso-scuola di Paese che per debolezze interne non può avere politiche estere: tantomeno, una politica estera univoca. Poniamo mente per un istante alla trappola (giugulatoria) del debito cinese (ed emiratino: https://www.newarab.com/analysis/why-unconditional-gulf-financing-egypt-dwindling) nella quale è rimasto bloccato per dare il via alla costruzione faraonica della nuova capitale amministrativa a est del Cairo, costata sinora 45,5 miliardi di dollari. Il tutto da sommare ad altre imprese inaccurate: una nuova capitale a nord, un impianto nucleare in un Paese noto per sovrabbondanza di energia elettrica, una città “sostenibile” sul delta del Nilo e la riproposizione di un progetto legato a Mubarak (nomen omen) di irrigazione e nuova agricoltura vicino al lago Toshka, a sud verso il Sahara. Forse solo il nuovo bypass del Canale di Suez, realizzato nel 2015, avrà un ritorno economico. Un ulteriore svalutazione della lira egiziana, sarebbe la quarta dal marzo 2022, facilmente porterebbe all’inasprimento dello stato d’animo collettivo. Ricordiamo di passaggio le polemiche interne agli Stati Uniti per questioni legate a un noto senatore democratico accusato dal fuoco amico obamiano di aver tramestato in Egitto: la cosa può significare che cambiamenti importanti sono in vista all’ombra delle piramidi che sono sempre un luogo propizio alla lettura di de Maistre più che di Napoleone (https://www.hrw.org/news/2023/01/31/egypt-imf-bailout-highlights-risks-austerity-corruption).

Tra parentesi l’Egitto riguarda molto da vicino l’Italia: dall’inizio del 2023 sono stati 6mila gli egiziani che vi sono arrivati per mare e nel 2022 ben 22mila si sono spostati in Europa sempre per via marittima. Le considerazioni da trarre oggi, alla luce del fatto che l’Egitto non ha aperto subito il passo di Rafah facendo orecchie da mercante come ai tempi di Giuseppe, è che il Paese sia sempre meno allineato con la mentalità atlantica. Dopo lo switch del 1974 facilitato da Kissinger con Sadat, il Paese non ha mai fornito prove sostanziose di operare di fianco all’Occidente: unica eccezione la Prima guerra del Golfo. Come ha rivelato la sua assenza in Sudan e il suo silenzio poco operoso per Gaza, l’Egitto sta lasciando il posto di mediatore all’Arabia Saudita. Peraltro Hamas proviene per gemmazione fisica dall’Iran ma “ideale” – per usare un eufemismo – dai Fratelli musulmani sunniti egiziani che la fondarono nel 2006. E il cerchio si chiude. O non del tutto, visto che i Fratelli sono sparsi e silenti in Turchia, Qatar e Giordania. Ma come predicava già il padre Baltasar Gracián nel Seicento: «La chiave di un regno stabile e felice consiste nello slancio iniziale e, se mi è consentito esprimermi così, nell’imbroccare ad avviarsi. Da dove iniziò a scorrere l’impetuoso fiume, per quella parte poi prosegue ed è impossibile mutar corso alla corrente». Evidentemente era sbagliato l’approccio, sin dall’inizio, con Sisi. Le elezioni a dicembre forse diranno qualcosa (se non verranno arrestati prima tutti i sostenitori dell’oppositore, Ahmed Tantawi) su questo generale che non può vantare, come Mubarak, un passato legato al contrasto con Israele nella Guerra del 1973, che in Egitto è nota, in modo involontariamente biblico, come “il passaggio”.

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