La posta in gioco delle riforme

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La posta in gioco delle riforme(di Danilo Quinto) La sentenza della Corte d’Appello di Milano sul “Caso Ruby” – che ha cancellato a Silvio Berlusconi una condanna a sette anni comminata in primo grado – ha un effetto immediato sul piano politico: l’accelerazione delle riforme sul nuovo Senato e sulla legge elettorale, in base agli accordi presi con il cosiddetto “Patto del Nazareno”, siglato dal Presidente del Consiglio e dal leader di Forza Italia all’inizio dell’anno.

Avrà anche altre due conseguenze, sempre politiche: la prima riguarda il rapporto tra Movimento Cinque Stelle e Renzi, che non avrà più la necessità di “strizzare l’occhio” a Grillo; la seconda attiene alla “rinascita” politica di Berlusconi, che tutti – o quasi – davano per politicamente finito proprio in previsione di una sentenza negativa. Le carte, invece, si sono completamente ribaltate, solo apparentemente a favore di Berlusconi.

In realtà, quella sentenza consolida il potere di Matteo Renzi, che proprio grazie a quel patto, ha potuto “scalare” la Presidenza del Consiglio, sfilandola ad Enrico Letta, ha conseguito alle elezioni europee un risultato storico per il Partito Democratico – superiore a qualsiasi risultato ottenuto dal PCI di Togliatti o di Berlinguer – che molti sondaggi danno in crescita esponenziale, fino a paventare l’avvicinamento al 50% dei consensi.

L’Italia di Renzi (e di Berlusconi) si avvia, quindi, a riformare le sue Istituzioni, attraverso la discussione sul ddl del Ministro Boschi sulla riforma costituzionale del Titolo V, la successiva riforma del Senato e la nuova legge elettorale. Tempo qualche settimana, dice Renzi, il Paese avrà un “vestito nuovo”. Mentre l’ANCI strepita («è inadeguato il numero dei sindaci previsto nel nuovo Senato delle Regioni e non è corretto il metodo di elezione che passa attraverso i Consigli regionali»), ha dichiarato il suo presidente, Piero Fassino, la «posta in gioco» sembra a portata di mano.

Di quale «posta in gioco» si tratta? La riforma del Senato è solo un passaggio. In tutta fretta, si è passati dalla sua proclamata abolizione – in nome dei costi della politica, che sono ben altri e riguardano l’elefantiaco apparato delle Regioni – ad una elezione diretta da parte dei cittadini, con funzioni e poteri che ne farebbero, come dichiarato pubblicamente, un «organo di garanzia e di controllo» sulla Camera.

Un pasticcio, insomma, testimoniato dagli 8mila emendamenti presentati dalle opposizioni (Sel innanzitutto, insieme alla Lega e al M5S) sulla legge che sarà discussa ai primi di agosto, che potrebbero essere superati se si trovasse un accordo su quel che davvero interessa ad una parte delle opposizioni e alle piccole formazioni che fanno parte della maggioranza, come il Nuovo Centro Destra: garantire la loro sopravvivenza politica, puntando alla diminuzione della soglia di sbarramento per l’entrata in Parlamento: 4%, 8% e 12%, a seconda che si presentino da soli o coalizzati. Interessi di mera “bottega”, che portano a ritenere plausibile l’ipotesi che se le “soglie” si abbassassero, se vi fosse un’apertura alle preferenze e se si alzasse il premio di maggioranza dal 37 al 40%, la riforma elettorale sarebbe cosa fatta, se non prima della pausa estiva, a metà settembre.

E poi? I problemi sul tappeto – a cominciare da una “manovra lacrime e sangue” di 20 miliardi prevista per l’autunno, per garantire il pareggio – rimarrebbero intatti, ma le riforme sarebbero finalmente realizzate e grazie a quel patto scellerato con Berlusconi, Matteo Renzi governerà il paese per i prossimi vent’anni. Gli basterà ancora “rottamare” un po’ qua e un po’ là – l’abilità e la scaltrezza non gli mancano – per far credere di aver “salvato” il Paese. Tutti gli crederanno. Non è lui, l’ultima carta dell’Italia? (Danilo Quinto)

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