Il ruolo storico e politico dell’Iran sulla scena internazionale

Il ruolo storico e politico dell’Iran sulla scena internazionale
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«Ai governanti degli arabi, dei curdi, dei dailamiti [sulla sponda meridionale del Caspio], dei rumi [europei] e degli altri che sono giunti solo di recente a condizioni di sottomissione, va detto che ognuno di loro deve tenere un figlio o un fratello residente a corte; devono essere, se non mille, mai meno di cinquecento. A fine anno possono mandare dei sostituti e gli altri possono tornare a casa, ma non devono ripartire finché i nuovi non arrivano. In questo modo nessuno potrà ribellarsi al re sfruttando gli ostaggi. Per quanto riguarda i dailamiti e gli abitanti del Kuhistan, del Tabaristan, dello Shabankara e consimili, i quali coprono incarichi e godono sovvenzioni, è opportuno che cinquecento di loro risiedano a corte, così che in caso di necessità, non mancheranno mai uomini utili».

Questo passaggio che parrebbe ispirato da un episodio di cronaca di scambio prigionieri da parte dell’Iran proviene dal Libro del governo o regole per re di Nizam al Mulk (libro 1, capitolo 25; traduzione di H. Darke , Routledge, 1960 e 2002) composto da Nizam al Mulk, visir dell’impero selgiuchide, nato nel 1018 e morto (assassinato) nel 1092. Il volume, al pari del Libro dei Re e dello Shahnameh, ha fatto scuola per quanto riguarda l’arte di informare i governanti Nizam al Mulk tratta Dell’importanza degli agenti informatori e sui latori di notizia, e loro rilievo nell’amministrazione del regno (libro 1, capitolo 10) e Dell’invio di spie e del loro utilizzo per il bene del Paese e del popolo (libro 1, capitolo 13). È storia esemplare: l’autore enuclea una verità morale illustrandola con degli esempi, così che inserisce un lungo inserto sui ladroni di Kuch Baluch per dirci che gli agenti riportano solo al re e debbono avere un salario mensile fisso onde non avere preoccupazioni di sorta; e un altro su Adud ad-Daula e il giudice ingiusto e un altro sul sultano Mahmud, anch’egli alle prese con un giudice poco giusto.

Questi riferimenti per quanto lontani nel tempo arrivano per continuità e lunga durata all’Iran attuale, sfruttando come ponte l’era safavide durante la quale, come scrive Manlio Graziano, era in auge lo sciismo duodecimano che incarnava la continuità con la Persia dell’antichità: «questa versione dello sciismo, introdotta da Ismail I nel territorio dell’attuale Iran nel 1501, si adatta sorprendentemente alla tesi braudeliana della longue durée… le aree del Medio Oriente popolate oggi da sciiti, al di fuori dell’area culturale persiana, ricalcano ‘le zone di diffusione del cristianesimo nestoriano, alleato politico della Persia sassanide contro il cristianesimo ortodosso di Costantinopoli e dei suoi alleati monofisiti».

In cosa risiede la continuità storica? Nel fatto che le aree circonvicine da cui l’Iran traeva ostaggi sono oggi avamposti della politica estera del regime. In questa sapiente, per quanto distorta, pretesa di rivendicare la storia per sé, i membri del clero sciita sono più sagaci dei sunniti: ma devono pur fare i conti con una società di fatto ormai salafita che ripetutamente si ribella al loro gioco teocratico, percepito come superstizioso quando non eretico o apostata (come illustrato dal teologo iraniano Mehdi Khalaji). Questi sviluppi a livello di società vanno di pari passo col calo del tasso di natalità, con l’aumento dell’età media del matrimonio e la crescita esponenziale dei divorzi: spinte eguali e contrarie a una società teocratica che può anche resistere ma che ora viene efficacemente ‘contenuta’ dalla politica estera di Biden tesa a evitare l’apertura di terzi o quarti fronti oltre a quello ucraino, taiwanese e al confine sino-indiano.

L’Iran oggi accoglie quanto rimane di al-Qaeda nella persona del suo leader Saif asl-Adl, e le dichiarazioni ufficiali CENTCOM sostengono che l’operazione Juniper Oak è stata condotta congiuntamente (la maggiore nella storia di Stati Uniti e Israele con 142 sistemi di aeronautica, una dozzina di navi e centinaia di forze dell’ordine) solo perché le trattative diplomatiche JPCOA erano rimaste in stallo. Eppure, è logico ipotizzare che ogni crescita esponenziale di attacchi iraniani provocherà reazioni uguali e contrarie da parte di Israele, per il quale Teheran rimarrà una minaccia esistenziale e non un blocco per la guerra di unità nazionale come lo sono la Siria o la Palestina. In uno scenario in cui si aprirà la faglia del dissenso tra Artesh (esercito) e Pasdaran (milizia politicizzata), si incuneerà Israele con una fortissima guerra di disinformazione per reagire a quanto continua a fare l’Iran postando foto artefatte sul web che ritraggono un comandante dello Shin Bet in divisa nazista o, più grave ancora, conducendo massicci attacchi cyber all’ospedale psichiatrico di Gerusalemme Kfar Shaul e persino durante le elezioni americane del 2020 con Emennet Pasargad (illustrato da Microsoft, 2 maggio 2023).

Dopo anni di deterrenza economica da parte dagli Stati Uniti, e di guerra larvata, fatta di assassini mirati da altri istituti, non è il momento del confronto armato con l’Iran, che se avvenisse sarebbe gestito e vinto per via aerea mettendo il nemico nelle condizioni di non poter replicare. C’è tempo per gli Stati Uniti per riportare a casa altri ostaggi e, per il mondo libero, fronteggiare l’aspetto più ‘moderno’ del regime: il suo impiego delle azioni coperte che, come spiegato da Chatham House (30 maggio 2023), si basano come per russi e cinesi su tre elementi chiave:

a) la difficoltà di negare o dimostrare il fatto come non esistente (esempio gli omini verdi in Ucraina prima del 2014);

b) la distrazione e la disinformazione che cela fatti imbarazzanti o sensibili in una giungla di negazioni su negazioni (e spetta al mondo libero individuare chi dice cosa a favore dell’Iran, della Russia e della Cina, volta per volta);

c) il tentativo di schermare le audience dalle fughe di notizie tramite la censura e la limitazione dell’impatto a livello interno di scandali internazionali (com’è avvenuto per il politico omosessuale iraniano, messo in sordina anche sui media italiani). Come si vede l’Iran, più della Cina anche se meno della Russia, ha esperienza abbastanza consolidata nella gestione delle pratiche autoritarie e di infowar. Ma questo non deve mai distogliere l’attenzione occidentale dal fatto che i maggiori investimenti in questo senso sta continuando a farli la Cina. Anche senza la riscossione di riscatti.

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