Il ruolo della Bielorussia nello scacchiere dell’Europa orientale

Il ruolo della Bielorussia nello scacchiere dell’Europa orientale
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La Bielorussia si sta trasformando in una propaggine della Federazione russa più che in un semplice Stato cuscinetto, quasi come una base di appoggio per collaudare l’uso di armi chimiche e potenzialmente anche nucleari (ad esempio con lanci da effettuare ad altitudine elevata per distruggere il campo elettromagnetico delle comunicazioni dell’avversario: National interest 31 marzo 2023). In Ucraina, la Russia non aspira semplicemente ad annettere il territorio ma a destabilizzare le zone a etnia mista nell’est del Paese: infatti nell’heartland russo la ricchezza agricola naturale è proprio a sudovest, tra Ucraina, Caucaso e Kazakistan.  Tre quarti della popolazione russa (in calo) vive nell’area compresa tra il confine con l’Europa e gli Urali. È dalla fine del 2001 che la Federazione Russa getta le basi giuridiche per l’annessione di parti di territori appartenenti alle attuali Bielorussia, Kazakistan e Moldavia (oltre a Georgia e Ucraina). Questo lavorio può innescare una crescita demografica dell’ordine di 20 milioni di unità e contrastare il tragico declino della popolazione.

a) Nella Federazione Russa la ricchezza oggi è distribuita in modo disomogeneo tra 85 entità amministrative (regioni autonome + singole città). Negli anni Novanta si trattava di un’economia di sopravvivenza e non di crescita, tesa com’era a bloccare il ritorno del comunismo, e ancora nel 1998 la crisi finanziaria si acuì portando alla necessità di un governo forte (Putin). Da allora l’economia è fatta di export energetico che ha rigonfiato le spese e i consumi budgetari. Essa è stata colpita duramente nel 2014 dal crollo del prezzo del petrolio e la ridistribuzione della ricchezza è divenuta pressoché impossibile. Tra il 2015 e il 2017 le proteste erano rivolte alla politica interna per il crollo degli standard di vita, oggi invece sono le sanzioni a pesare come un’incognita sulla vita economica. Nonostante la campagna contro gli oligarchi del 2001, Putin si appoggia ancora ad un quinto dell’economia che è da essi rappresentata: è il ‘circolo interno’.

b) Per quanto riguarda la politica interna, nella sua prima presidenza (2000-2008) Putin ha ridotto il numero di partiti rappresentati alla Duma, la camera bassa del Parlamento. Nel 2012, il Presidente Mevdev ha semplificato la procedura di registrazione delle nuove realtà politiche ma effettivamente il sistema è rimasto chiuso. Oggi predominano 5 partiti: quello di Putin, Russia unita, detiene 323 seggi su 450; quello comunista ne ha 57; il liberale 23; Una giusta Russia 27 e il Nuovo partito del popolo 14. Astraendo dal primo, tutti sono all’opposizione ma mantengono una mite distanza dal regime senza tentare di deviare. Nel 2012 è stata varata una legge per l’elezione dei governatori ma, di fatto, 20 di essi sono stati nominati dal Cremlino e nelle loro regioni le elezioni sono state rinviate fino al 2017.

Nel frattempo, nel 2013 Putin aveva emanato una legge che consentiva alle legislazioni regionali di eleggere i loro governatori o lasciarli selezionare da Putin personalmente. In questo quadro i governatori sono importanti perché costituiscono la camera alta della Federazione, o Consiglio, che raccoglie i rappresentanti provenienti dalle 83 entità federali, due per ciascuna: uno è scelto dalla legislatura regionale e un altro dal governatore regionale. Il Consiglio approva i decreti presidenziali in materia di legge marziale, dichiara lo stato di emergenza, manda le truppe all’estero, controlla la nomina presidenziale del procuratore generale e decide i verdetti di impeachment.

c) Quanto a politica estera, nel 2014 la Federazione ha occupato la Crimea per isolarla da influssi esteri e assicurarsi il porto di Sebastopoli decisivo per la flotta nel Mar Nero. Le altre flotte russe sono nel Mare del Nord, nel Baltico e nel Pacifico. Le basi delle flotte sono a Sebastopoli, San Pietroburgo e Murmansk (in subordine Tartus). L’invasione dell’Ucraina non deve nascondere il fatto che la Federazione non ha qui mezzi né risorse che le garantiscano il successo dell’operazione, che però intanto ha interrotto la precedente strategia di disruption globale.

La Bielorussia è autonoma dal 1991 e dal 1996 risulta confederata con la Russia. Con la vittoria alle elezioni del 2020, penetrate ai confini da mercenari russi, Lukashenko si è assicurato altri cinque anni di governo che quindi virtualmente si protrarrà per un totale di 34 anni. Egli ha vinto alle ultime elezioni dovendo frantumare il blocco delle sue alleanze filorusse (National Interest, 6 agosto 2020) ma da ultimo è ridotto al ruolo di riserva politica. Lukashenko ha prima appoggiato Putin nel presentarsi come tutore di Prighozin, pensando così di irrobustire la militarizzazione ai confini con la Polonia, e dopo la ‘scomparsa’ del suo protetto ha ceduto interamente la sovranità alla Federazione. Ma già nel 2021 i due Stati avevano firmato un accordo su 28 punti per unificare il sistema di tassazione, il mercato del petrolio e del gas e stabilire un’unione doganale: mentre però progetti analoghi di Lukashenko negli anni Novanta erano finalizzati alla sua ascesa al Cremlino, oggi si configurano come uno Zollverein deformato dal nichilismo russo. Come ha scritto Kelly Alhhouli su National Interest (5 settembre 2023): «Lukashenko ha inavvertitamente scambiato la sovranità del suo Paese per rimanere al potere per una manciata d’anni».

d) In ottica macro, il senso di accerchiamento russo è di ordine geografico prima che psicologico: i pochi fiumi sul territorio della Federazione scorrono verso ovest rendendo complesso il trasporto all’interno dei confini. L’aggressore è sempre arrivato da ovest percorrendo la grande pianura europea, e la Russia si difende acquistando più porzioni di territorio possibile in quella direzione. Una sintesi eloquente: mentre nel 1989 la distanza tra San Pietroburgo e le truppe NATO era di 1000 miglia, essa ridotta oggi a un quinto, 200 miglia (The geopolitics of Russia, Special report GPF). Ma anche la psicologia e la storia dei popoli ha il suo peso, tanto è vero che in Ucraina la guerra è fatta anche di lotte religiose. Come ha scritto Gregorz Kuczynski del Warsaw Institute (Report, 14 febbraio 2023): «La Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca, o UOC-MP, si è sviluppata da alcune strutture di retaggio post-sovietico. Fu allora che sorse anche una chiesa non riconosciuta in esilio. Dopo che l’Ucraina ebbe riconquistato l’indipendenza nel 1991, la UOC-MP è stata l’unica entità formalmente riconosciuta del Cristianesimo ortodosso in Ucraina, con 52 diocesi suddivise in 12.000 parrocchie. L’altra, fondata nel 1992, si è dichiarata una Chiesa ucraina indipendente, formando la Chiesa ortodossa del Patriarcato di Kiev. Aveva 35 diocesi e circa 5.000 parrocchie. […] L’unica Chiesa canonica era però quella affiliata a Mosca».

Zelensky si è finora tenuto lontano dalle questioni religiose, non vedendo in esse una reale minaccia per la sicurezza nazionale ed è rimasto a lungo piuttosto scettico nei confronti dell’OCU autocefala, considerandola un ritrovato del suo predecessore Poroshenko. Questo atteggiamento di cauta riserva è lentamente evoluto al punto che il direttore del Servizio ucraino (SBU), Vasyl Maliuk, ha dichiarato a fine ottobre 2022 che: «Se consideriamo il periodo in cui è iniziata l’invasione su larga scala, l’SBU ha aperto 23 procedure per crimini contro potenziali agenti russi appartenenti alla UOC-MP, e ci sono già 33 altri sospettati». È arduo trovare parole conclusive migliori di quelle pronunciate da Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, Capo e Padre della Chiesa greco-cattolica ucraina alla Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (19 ottobre 2022): «I vertici del patriarcato di Mosca proclamano una guerra metafisica che è una guerra contro il globalismo universale, soprattutto quello occidentale e americano. Ecco perché il Santo Padre Francesco ha definito questa guerra una guerra sacrilega. Durante tutto il periodo della guerra in Ucraina, purtroppo, non abbiamo sentito – da parte dei vescovi della Chiesa del Patriarcato di Mosca, né tantomeno dal Patriarca – alcuna parola contro la guerra, né le espressioni di solidarietà con, quantomeno, i propri fedeli ortodossi residenti nel nostro paese; non abbiamo trovato nessun appello ai soldati russi ad astenersi dalla crudeltà nei confronti delle persone innocenti e a comportarsi umanamente con gli ostaggi, i feriti e la popolazione civile, tutt’altro».

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