Attualmente il ddl Bazoli è all’esame del Senato, dopo essere stato approvato dalla Camera. È un testo che vorrebbe permettere l’aiuto al suicidio tra le corsie d’ospedale. Questo disegno di legge, come la legge 219/17 che ha legittimato alcune pratiche eutanasiche, trova il suo fondamento teorico in quelle sentenze giurisprudenziali che, soprattutto negli ultimi anni, avevano già legittimato il suicidio tramite il rifiuto di trattamenti sanitari salvavita (per un approfondimento di carattere scientifico clicca qui). In sintesi: legittimato il suicidio, non si vede perché non legittimare anche l’aiuto al suicidio. E infatti se il suicidio è un diritto, chi aiuta ad esercitare un diritto non può finire in carcere, come oggi avviene al netto di una sentenza della Consulta che legittima in alcuni casi l’aiuto al suicidio, bensì deve essere agevolato. Ma vediamo come si è arrivati a legittimare il suicidio tramite il rifiuto di terapie salvavita.
Uno dei puntelli, ma non l’unico, su cui si è fatto leva per introdurre un vero e proprio diritto a morire tramite il rifiuto delle cure salvavita è stato quello del consenso informato ex art. 32 della Costituzione. Nel documento “Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico” redatto dal Comitato nazionale per la bioetica nel 2008, si può leggere: «non è configurabile per il singolo un obbligo generale di curarsi, non essendo la tutela della salute passibile di imposizione coattiva, se non nei limiti e con le garanzie previste dal citato art. 32, comma 2, della Costituzione. L’ordinamento vigente non ammette, dunque, l’imposizione forzata di un trattamento autonomamente e coscientemente rifiutato, pur se necessario al mantenimento in vita della persona. Non è possibile opporsi alla scelta di chi, esplicando la propria libertà personale, richieda non già – si badi – di essere aiutato a morire, ma semplicemente di non essere (ulteriormente) sottoposto a cure indesiderate, accettando che la patologia da cui è affetto segua il suo corso naturale, anche fino alle estreme conseguenze. Sebbene, dunque, il personale sanitario sia investito di una posizione di garanzia rispetto alla vita e alla salute del paziente, l’obbligo giuridico di attivarsi allo scopo di preservare tali beni trova un limite nella cosciente, libera ed informata opposizione dell’interessato». Analogamente così si esprimeva la Cassazione: «Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita» (Sentenza n. 21748 del 16/10/2007) disegnando in tal modo un rapporto tra soggetto e bene vita connotato da piena disponibilità.
Tale rapporto di pieno dominio sulla propria vita scaturisce essenzialmente da due fonti giuridiche. La prima fa riferimento ad una interpretazione del combinato disposto dell’art. 2 della Costituzione, riguardante i diritti inviolabili dell’uomo, e dell’art. 13 della medesima, inerente l’inviolabilità della libertà personale, con un’ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale dell’art. 32 comma 2 il quale così recita: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Il ragionamento sarebbe il seguente: la libertà di cura è un diritto fondamentale e può significare anche il suo rovescio: diritto di non cura. Tale ultimo diritto è espressione della libertà individuale (art. 13 Cost.) e si sostanzia nell’art. 32 Cost.
Ma in realtà l’art. 32 Cost. non legittima il rifiuto di trattamenti salvavita, non legittima cioè il suicidio. Il legittimo rifiuto dei trattamenti non può spingersi fino al suicidio, sia sul piano morale che su quello giuridico. Analizziamo le motivazioni di carattere giuridico. In primis il significato dell’art. 32, 2°co. riceve senso dall’art. 2 Cost. che indica l’inviolabilità della vita come limite al rifiuto delle cure. L’art. 2 infatti recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». Tra questi diritti inviolabili rientra certamente il diritto alla vita e l’inviolabilità è riferita non solo a terzi, ma anche al titolare stesso del diritto alla vita altrimenti l’art. 579 (reato dell’omicidio del consenziente) e l’art. 580 (reato di aiuto al suicidio) sarebbero stati dichiarati incostituzionali da tempo, oltre all’art. 5 del Codice civile che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando, ad esempio, comportino una diminuzione permanente del proprio corpo (se non posso amputarmi un braccio solo perché lo voglio e non per motivi terapeutici a maggior ragione non posso togliermi la vita).
In secondo luogo interpretare l’art. 32 Cost come un lasciapassare al suicidio sarebbe contraddittorio: se la Costituzione tutela il diritto alla vita e all’accesso alle terapie non può, pena contraddizione in termini, tutelare anche il diritto alla morte e al rifiuto delle terapie. Se per la Costituzione la vita e la cura sono dei beni giuridici sarebbe illogico e auto-confutatorio asserire anche il contrario, ossia che per la Costituzione la morte e la non cura sono dei beni giuridici. O l’uno o l’altro.
Il terzo rilievo ha carattere storico e fa riferimento ai lavori preparatori dell’art. 32: «Il 2° co. dell’art. 32 fu introdotto allo scopo di circoscrivere al massimo gli interventi sulla sfera fisiopsichica dell’uomo spesi nell’interesse, vero o supposto, della collettività o di sue porzioni. Come risulta dai lavori preparatori, l’occasione della disposizione fu l’esigenza di proscrivere, in modo assoluto, pratiche coatte, come la sterilizzazione, la castrazione e l’aborto, che l’eugenismo razzista aveva, per ragioni igieniche o sociali, nel corso del ’900, dapprima incoraggiato e successivamente praticato, tanto nella Germania nazionalsocialista, quanto in altri paesi. La ratio dell’art. 32, 2° co. è di vietare che l’uomo sia utilizzato come uno strumento per l’applicazione di misure di interesse collettivo» (M. Ronco, Eutanasia, in Digesto discipline penalistiche, Utet, 2010, n. 5). In breve, l’art. 32 non è rivolto al cittadino privato per permettergli il suicidio, ma è rivolto allo Stato al fine di vietare pratiche coattive contrarie alla dignità della persona. Ma in mano ai giudici questo articolo mutò di significato ed aprì la breccia all’eutanasia omissiva: diritto al rifiuto anche di terapie salvavita.
In merito infine all’art. 13 sulla tutela della libertà, questa è realmente tale solo se orientata al bene oggettivo della persona e il suicidio non configura un bene oggettivo. Quindi non si può predicare, nemmeno sotto il profilo giuridico, l’esistenza della libertà al suicidio. Infatti l’art. 13 riceve significato alla luce dell’art. 2: essendo la vita diritto inviolabile anche dal titolare del bene stesso, ciò comporta che la libertà del soggetto riguardo a tale diritto non può che esercitarsi nel senso di tutelare tale diritto, non potendo appunto violarlo. A volte, addirittura, è lo Stato stesso che obbliga a compiere alcuni atti tesi alla protezione della vita o della sola salute (la vaccinazione obbligatoria rientra tra questi atti) andando quindi a contrastare possibili scelte di senso contrario. E dunque, se l’ordinamento giuridico impone alcune condotte al fine di salvaguardare la mera possibilità di un attentato alla propria vita (se non alla sola salute) – cinture di sicurezza, vincoli di sicurezza sul luogo di lavoro, T.S.O., etc. – a fortiori dovrebbe imporre quelle terapie la cui omissione porterà certamente a morte il paziente. Ma così non è.
Dunque attraverso soprattutto un’errata interpretazione dell’art. 32 Cost. da parte dei giudici, il suicidio realizzato tramite rifiuto delle cure divenne un vero e proprio diritto. Quindi l’attuale Ddl Bazoli risulta essere una semplice estensione del principio sotteso alla legittimazione del suicidio di carattere giurisprudenziale già cristallizzato da tempo. In altri termini, se è legittimo suicidarsi per mezzo del rifiuto di terapie salvavita non potrà che essere legittimo suicidarsi anche in tutti gli altri modi, ad esempio tramite l’aiuto di un medico che fornisce all’aspirante suicida i mezzi per togliersi la vita. Accettato il principio che il suicidio è un diritto è doveroso tutelare tutte le modalità per esercitare questo diritto. Dunque sì al suicidio omissivo (rifiuto cure) ed anche a quello commissivo (assumendo ad esempio un preparato letale consegnato da terzi).
In breve il Ddl Bazoli non potrà che vedere la luce altrimenti ci troveremmo in una insanabile contraddizione: via libera al suicidio, ma solo tramite un’unica modalità, ossia il rifiuto delle terapie salvavita. Ma in tal modo il paziente dovrebbe aspettare di morire, sarebbe costretto ad attendere che la patologia faccia il suo corso fino all’esito letale. Ciò sarebbe crudele, contrario alla dignità personale. L’aiuto al suicidio, di contro, anticiperebbe quella che è già una scelta della persona, evitandole attese dolorose. Inoltre se si accettasse solo il suicidio realizzato tramite un atto omissivo di cura, si escluderebbero dalla cerchia di possibili aspiranti al suicidio tutte quelle persone che vogliono morire, ma che non sono affette da patologie ad esito infausto. Ad esempio il depresso, sano nel fisico ma malato nella psiche, non potrebbe togliersi la vita perché non mantenuto in vita da terapie che potrebbe rifiutare. Legittimare il suicidio assistito permetterebbe anche a costoro di esercitare il diritto a morire. Non legittimarlo comporterebbe una irragionevole, perché non giustificata, discriminazione.