Il matrimonio nella Grecia classica, di Francesco Colafemmina

Il matrimonio nella Grecia classica
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(di Gianandrea de Antonellis) «Riti e tradizioni oltre le mistificazioni contemporanee, per un’etica matrimoniale condivisa fra ellenismo e cristianesimo»  recita il sottotitolo di  aureo libretto di Francesco Colafemmina (Il matrimonio nella Grecia classica, Settecolori, Lamezia Terme (CZ) 2011, p. 110, € 12), che rende omaggio alla Tradizione in vari sensi. Innanzitutto perché si presenta anche come omaggio sponsale: nell’Ottocento era d’uso, nelle famiglie più colte, pubblicare in occasione di nozze un libricino di versi, un breve saggio o un estratto di un’opera rara. E Colafemmina, in occasione del proprio matrimonio, pubblica appunto uno studio accompagnato dalla riproposizione dei Precetti coniugali di Plutarco.

Ma il tributo alla Tradizione dello studioso italiano è soprattutto quello di sottolineare, analizzandola in ogni dettaglio, la somiglianza tra la cultura matrimoniale (e sessuale) dell’antica Grecia e quella della civiltà cristiana occidentale, riuscendo a sfatare una serie di equivoci alimentati in particolar modo da alcuni saggisti (Colafemmina indica in particolare il sociologo Michel Foucault, la grecista Eva Cantarella ed il filologo inglese Kenneth Dover) secondo cui l’omosessualità – o almeno la bisessualità – sarebbe stata la prassi comune nella vita quotidiana dei Greci. Correttamente, Colafemmina fa notare che gli epigrammi pruriginosi dell’Antologia Palatina, le pitture sconce rinvenute su alcuni vasi o la nota inversione di personaggi come Anacreonte o Alcibiade, non prova la diffusione “istituzionale” nell’antichità greca dell’omosessualità, ma soltanto la sua esistenza, generalmente limitata «ad ambienti dai quali le donne erano estromesse come la palestra ed il campo di battaglia»  (p. 22).

In altre parole, prosegue l’autore, sarebbe errato far passare per ordinaria l’omosessualità nella Grecia classica come lo sarebbe attribuirla alla nostra società attuale se un domani ai nostri discendenti giungessero soltanto i film di Pasolini, gli scritti di Busi e le pubblicità di Dolce&Gabbana…

Inoltre per i citati epigrammi (dovuti ad autore evidentemente omofili) o per le pitture erotiche sui vasi (creati appositamente per divertirsi nei simposi e non per l’esposizione quotidiana, costituendo l’equivalente dei film pornografici dei nostri giorni) non si può certo parlare di riproduzione del quotidiano.

Infatti, a simili esempi di ammiccamento verso l’omosessualità si possono contrapporre esempi ben più concreti di condanna della stessa: nell’orazione Contro Timarco di Eschine si parla esplicitamente di sessualità «secondo natura» e «contro natura»;  la legislazione ateniese era molto rigida contro i pedofili (ciò significa che erano sì presenti, ma non certo apprezzati o tollerati); Aristofane riserva in alcune sue commedie attacchi feroci contro noti omosessuali (si pensi agli epiteti lanciati da Mnesiloco all’ambiguo poeta Agatone nelle Tesmoforiazuse o Le donne alla festa di Demetra.

Ma la condanna più esplicita si ha nelle Leggi di Platone (636c) le cui parole potrebbero essere riportate in qualsiasi scritto di un autore cristiano a dimostrazione che la legge di natura è stata sempre riconosciuta dalle grandi civiltà. Del resto – al di là di interpretazioni errate o in mala fede – allora come ai nostri tempi l’amicizia tra due uomini o tra un uomo ed un fanciullo non doveva mai sfociare in pulsione fisica: infatti né Omero né Esiodo fanno cenno all’omosessualità, con buona pace di chi vorrebbe vedere in Achille e Patroclo una delle prime “famiglie di fatto”.

Ancora Platone conferma nella Repubblica (403b) quanto accennato nell’Eutifrone (282b) e nel Simposio (IX), sostenendo che solo l’amore vero, quello nobile che lega il discepolo all’allievo in nome della saggezza e della virtù dev’essere lodato e ricercato; e Senofonte Memorabilia (A, II 30) riporta il duro giudizio di Socrate sulla pederastia, definita come «passione da schiavi e indegna di un uomo buono e nobile» e poi come una «malattia da maiali» (p. 26). (Gianandrea de Antonellis)

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