Il fallimento della criminale utopia comunista di Cuba e le responsabilità del progressismo occidentale

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(Luca Della Torre) L’ombra lunga della contestazione di piazza si profila sinistra sulla sempre più balbettante dittatura di governo marxista all’Avana. Dall’inizio di luglio una serie di proteste sempre più popolari e diffuse sull’intera isola di Fidel Castro mette oramai in discussione la “legittimità” istituzionale di un regime violento e liberticida, triste erede della peggior criminale ideologia del XX secolo, il comunismo.

I moti di piazza che hanno coinvolto progressivamente studenti ed intellettuali, giornalisti ed operai, le stesse masse popolari castriste indottrinate da decenni di totalitarismo ideologico armato hanno preso piede a causa della gravissima situazione economica in cui versa l’isola caraibica: a motivare ufficialmente migliaia di cubani a scendere per strada sono state la quotidiana carenza di cibo, l’aumento dei prezzi, la sempre più frequente carenza dei servizi pubblici essenziali.

Migliaia di studenti, giornalisti, oppositori politici hanno subito la violenta risposta armata del regime castrista, un regime che da decenni, da sempre si regge sulle baionette e sulla persecuzione occhiuta di ogni forma di opposizione politica alla patetica “dinasty” marxista e post-marxista della famiglia Castro. Le violente reazioni delle forze armate contro i moti pacifici di piazza dei cubani sono documentate in video dai filmati di Human Right Watch, una delle principali ONG che collabora con l’ONU nel settore della tutela dei diritti umani.

Ma in verità, dietro alle concrete preoccupazioni dei cittadini cubani per una crisi economica gravissima che rende dura la sopravvivenza per il pane quotidiano – come confermato da una nota-report del Fondo Monetario Internazionale – una moltitudine di persone in marcia per le strade dell’Avana gridano uno slogan, “liberdad”, che fa molta più paura delle richieste di pane e lavoro al dittatoriale regime guidato da Miguel Diaz-Canel il delfino di Raul Castro, che succedette al sanguinario Fidel alla sua scomparsa.
Abituati come siamo in Occidente ai diritti fondamentali civili e politici della persona, al diritto al dissenso ed all’opposizione ai governi dei sistemi democratici, a Cuba l’inno alla “liberdad” non è affatto poca cosa, anzi: il carcere, la tortura, l’omicidio dei dissidenti sono ancor oggi gli strumenti del terrore a cui ricorre un sistema politico sempre più imbalsamato, sempre più autoreferenziale e isolato dalla comunità internazionale.

L’Unione Europea, pur solitamente mite se non tremebonda nelle relazioni internazionali e nella politica estera e di sicurezza, laddove si renda necessario “alzare la voce” contro i regimi dispotici comunisti, questa volta ha espressamente stigmatizzato – attraverso il Presidente del Consiglio UE Borrell – gli arresti dei cittadini cubani, condannando espressamente la violazione della libertà di espressione politica da parte del governo marxista. I Paesi anglosassoni, la cui pragmatica secolare realpolitik ha permesso alle loro democrazie di non essere mai contagiate dal funesto pensiero ideologico del marxismo, si sono spinti oltre: il portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha dichiarato testualmente in conferenza stampa che «il comunismo è un’ideologia che ha fallito e il popolo di Cuba merita la libertà e un governo che li sostenga, il comunismo è un regime autoritario che ha represso la sua gente».

Le reazioni ufficiali della traballante giunta del Presidente Miguel Diaz-Canel si svolgono secondo uno scontato e stantio refrain a cui siamo abituati da decenni nelle conferenze stampa dei regimi comunisti: i disordini sono causati dagli Stati Uniti, la crisi economica è esclusiva colpa dell’embargo in vigore da decenni a causa della violazione dei diritti umani (embargo del tutto legittimo ex art.41 dello Statuto ONU), la folla è composta dalle forze controrivoluzionarie (ma chi saranno mai questi fantomatici controrivoluzionari?), in un delirio utopico completamente sganciato dalla realtà della politica interna ed internazionale.

In realtà il senso di quanto sta accadendo a Cuba è molto salutare: le rivoluzioni politiche nate dal XX secolo in seno al pensiero marxista e realizzate dai partiti comunisti nel mondo in realtà sono destinate ad uccidere sé stesse, giungono alla auto-dissoluzione, proprio in quanto costruite sempre e comunque sulla oppressione dei diritti fondamentali della persona, dei diritti civili e politici, di libertà di pensiero, di religione, di associazione, di stampa: in ultima istanza sulla oppressione della dignità dell’uomo.

Così è accaduto in Polonia contro i carri armati di Mosca, a Budapest, a Praga, in Vietnam ed in Cambogia, con il crollo interno dell’URSS, con il crollo del Muro di Berlino, con la disfatta del comunismo in Occidente. La dignità della persona umana, libera in quanto figlia di Dio, come ha felicemente intuito il pensiero cristiano incarnato nella teologia della storia dal Medioevo ad oggi – risorge e si riscatta sempre contro ogni tentativo di comprimerla e renderla mero corpo meccanico di un’ideologia utopica e distopica come sempre è stata quella marxista.

Le dimostrazioni di queste settimane lo dimostrano in modo inconfutabile: le folle in piazza chiedono libertà, prima ancora che pane, e negarlo è forma di grave miopia culturale ma soprattutto disonestà intellettuale. La disonestà intellettuale dei tanti, troppi accademici, giornalisti, politici e pure purtroppo religiosi di un certo mondo cattolico adulto, “impegnati” in Occidente a sostenere servilmente un falso mito raccapricciante, quello della Rivoluzione cubana si è incrinata grazie un intervento di Massimo Gramellini, un giornalista progressista e conformista del Corriere della Sera, che però, a proposito della crisi di Cuba, si è domandato perché intellettuali “impegnati” ed influencer demagogici di piazza alla Fedez non aprano bocca sugli arresti di massa e le repressioni a Cuba. Si domanda se avessero fatto la stessa cosa se ciò fosse accaduto nella Ungheria conservatrice di Orban. Si domanda perché, per questi intellettuali “impegnati” da salotto la dittatura cubana sia sempre un po’ meno dittatoriale delle altre.

E’ ingiustificabile il silenzio ipocrita su Cuba del leader del PD, Enrico Letta, a riprova della inaffidabilità del Partito Democratico sul tema dei diritti civili e politici della persona; è patetica l’argomentazione del vecchio leader comunista Bertinotti secondo cui a Cuba la Rivoluzione comunista deve ancora essere portata a pieno compimento; è ignobile e offensiva l’asserzione di Frei Betto, il frate domenicano tra i padri della Teologia della Liberazione, secondo cui il regime marxista di Cuba garantisce i diritti fondamentali della persona, garantisce pane, salute e lavoro, ed è la vittima del complotto capitalista USA (intervista sciagurata peraltro sostenuta dal leader morale del M5S Beppe Grillo, oggi al governo dell’Italia).

Perché questa dolosa volontà dell’intelligentsia di sinistra italiana e internazionale di ignorare la mancanza di libertà a Cuba si chiede il giornalista Gramellini? La risposta c’è, è limpida ed inappellabile: questi ferri vecchi del pensiero marxista, post-marxista, politici e giornalisti, religiosi ideologizzati, non vogliono vedere e riconoscere che la libertà a Cuba manca, manca eccome, dice Gramellini: semplicemente si sottraggono al dibattito intellettuale, hanno una tara psicologica di vecchia data, perché vedono crollare in tutta la sua miseria l’utopia puerile in cui hanno confidato, il comunismo.

Un’utopia ideologica, che aveva la presunzione di creare un mondo nuovo, ed in realtà ha portato l’inferno e le macerie nella società politica internazionale: Cuba è un’isola delle nebbie, dove lo sciagurato pensiero marxista non ha mai voluto confrontarsi con l’inferno in terra che ha creato. 

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