La Cina ha fondato la sua moderna strategia di guerra ibrida anche sull’impiego della disinformazione e dell’intossicazione informativa. Sia la disinformazione che l’intossicazione vengono veicolate tramite: A) agenti di influenza, per interferire su/dirigere i processi decisionali diretti o riconducibili ad altri Stati; B) agenti di ingerenza, per acquisire posizione di influenza, potere, intervento occulto nella vita politica, sociale ed economica di uno Stato. L’ingerenza è un passaggio successivo all’influenza, ma tutto, comprese le operazioni di disinformazione e intossicazione, è riconducibile a strategie pianificate dall’intelligence, che nel caso cinese come in quello iraniano, più che in altri, è in costante bilanciamento con le attività diplomatiche.
Tra gli episodi più recenti di disinformazione cinese si ricordi quello legato alla massiccia diffusione di notizie false legate all’inquinamento dell’acqua dopo l’incidente alla centrale giapponese di Fukushima. Più grave, anche se meno reclamizzato benché la notizia sia stata data anche da Microsoft, è l’attacco hacker sponsorizzato dal governo cinese noto come Volt Typhoon che ha preso di mira le infrastrutture critiche di comunicazione tra Stati Uniti e Asia coinvolte da una crisi prossima e in potenza. Come scrive Colin Clarke su The diplomat del 1° giugno 2023, gli attacchi di questo tipo sono equivalenti non cinetici di test d’arma, cioè tentativi propedeutici a verificare come potrebbe rispondere l’avversario. Si tratta di una tipica strategia dettata dal fatto che gli Stati-clienti dell’economia cinese non sono coesi fra loro e frazionano quella percezione del potere, diminuendolo, che viene trasmessa all’avversario. Il potere percepito di Pechino (anche mediante la disinformazione) risulta mera forza che però diminuisce all’aumentare della distanza tra lo Stato-cliente e la Cina. La forza della disinformazione cinese, secondo Edward Lutwak, «è la facoltà subordinata al potere di imporre un particolare tipo di costo mediante la coercizione o la distruzione». La Cina fa uso anche di una diplomazia di tipo coercitivo, alternando dichiarazioni di “diplomatici-lupo” – basti ricordare le esternazioni circa l’indipendenza e l’integrità territoriale delle ex-repubbliche sovietiche – a periodi di relativo silenzio. Questo avviene perché Pechino non sa controllare il normale flusso di costi e vantaggi in termini di potere destinato ai suoi Stati-clienti; e poi perché buona parte della strategia teorizzata da Deng Xiaoping e sviluppata durante i primi anni Duemila con il cosiddetto «periodo di opportunità ventennale» (a causa di minor resistenza di Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Australia) sta volgendo al termine.
La persuasione, l’influenza, la narrativa, l’intelligence culturale, non giocano più a favore della Cina, soprattutto dopo la pandemia e la guerra in Ucraina voluta da Putin e sostenuta dal Partito Comunista Cinese. Non dimentichiamo che nel caso cinese c’è un’eredità specifica della Guerra fredda, sin da quando Pechino iniziò a parlare di sostegno alle «lotte di liberazione» in Stati-clienti come i territori palestinesi e l’Algeria. Il think tank cinese CICIR, sotto l’egida del Ministero della sicurezza statale, l’ha definita in termini idealistici quale nuova «onda della riconciliazione», che però si accompagna giorno dopo giorno alla costruzione di nuove fabbriche di droni in Arabia Saudita e alla fornitura di missili Silkworm anti-nave all’Iran. Ma anche al sostegno concreto alla Russia nell’aggressione all’Ucraina, alla presenza sempre più schiacciante in Africa, alle già citate trappole del debito, disseminate dai Balcani all’Estremo Oriente. Ma è soprattutto in rete che la guerra cognitiva cinese, nutrita di disinformazione, fa maggiori danni, cercando di mutuare e raffinare le tecniche di guerra ibrida più consolidate dell’alleato russo. Yuri Andropov, sesto leader dell’URSS e già direttore del KGB, aveva definito queste azioni destabilizzanti come «una forma segreta di lotta politica che fa uso di mezzi e metodi clandestini per acquisire informazioni segrete e attuare misure attive ed esercitare un’influenza sull’avversario indebolendone la politica, le posizioni scientifiche, tecniche e militari».
La Cina sta investendo cifre elevatissime per condurre campagne in rete anti-Tibet e sviluppare la propria narrativa su Tienanmen, Hong Kong, Taiwan nonché sulle dispute territoriali con l’India e sulla bontà della Via della Seta. Circa la liaison sino-russa, ricordiamo come la diffusione dell’epiteto “nazisti” rivolto agli ucraini è stata promossa ufficialmente da Zhagn Heqing, Consigliere culturale dell’ambasciata cinese in Pakistan e da Cao Yi, diplomatico all’ambasciata cinese in Libano. E come dimenticare le dichiarazioni che imputavano agli Stati Uniti la gestione di laboratori in Ucraina per la guerra biologica nonché la fuoriuscita del COVID-19 da Wuhan? Per i comunisti cinesi, la guerra, anche la guerra ibrida, così come per i russi, non riguarda solo le attività specificamente militari, ma è una sintesi di azioni politiche, economiche, diplomatiche e anche legali. Uno degli stratagemmi della tradizione cinese si chiama “Creare qualcosa dal nulla”, un artificio che deve sempre alimentare una motivazione, una tesi, una battaglia culturale. Questa “guerra narrativa” precede e accompagna ogni iniziativa cinese, da Taiwan alla Siberia, dal Pacifico Meridionale al Caucaso, dall’America Latina all’Europa. È sempre un problema di percezione. Per usare le parole di George Friedman, «la Cina si concentra sulla percezione per compensare la debolezza. […] Ma è abile nel manipolare la percezione che il mondo ha del suo potere, abbastanza da far sì che i turchi come gli europei, tendano a considerare gli eventi come una transizione verso il potere cinese». Si dice che la percezione corrisponda alla realtà. Ma non è così. La guerra ibrida della percezione serve a guadagnare tempo.