Sempre più evidente la frattura tra la Chiesa e Joe Biden, che pure a parole continua a proclamarsi “cattolico”.
La sua amministrazione, infatti, ha proposto nuove norme federali, ufficialmente per «affermare i diritti civili e le pari opportunità» ovveroper affrontare la presunta discriminazione dei soggetti Lgbtqi+ nei programmi, che ricevono sovvenzioni dal Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani americano. Ma, di fatto, non è questo l’obiettivo, come precisa una lettera diffusa lo scorso 5 settembre dall’Ufficio di Consulenza Generale della Conferenza episcopale statunitense, che ha preso pubblicamente le distanze da questa iniziativa, pensata in modo tale – si afferma – da «creare conflitti tra i requisiti della norma e la dottrina cattolica», compromettendo l’attività di molte, troppe organizzazioni caritative, in primis quelle che forniscono «rifugi di emergenza alle vittime di violenza domestica». Perché? Alcuni di questi alloggi sono riservati a persone dello stesso sesso. Ma le nuove regole proposte dall’amministrazione Biden qui «imporrebbero di ospitare anche uomini biologici, che si identifichino come donne». Si legge nella lettera dei vescovi statunitensi: «Qualsiasi ente di beneficenza, che abbia bagni o spogliatoi separati per uomini e donne, potrebbe essere obbligato a permettere agli uomini di utilizzare le strutture per le donne e viceversa» ed a rivolgersi ai propri dipendenti o utenti con «pronomi, che non corrispondono al loro sesso biologico».
Secondo i legali della Conferenza episcopale americana, insomma, le norme proposte imporrebbero «condizioni incostituzionali circa la partecipazione ai programmi governativi», tali da minacciare «la nostra capacità di svolgere» le opere previste e da riflettere «premesse antropologiche, che semplicemente non sono vere», contrastando quell’«ordine nel mondo naturale, che è stato progettato dal suo Creatore», ordine che include «corpi umani sessualmente differenziati come maschi o femmine». Da qui il pollice verso rivolto dai vescovi contro tali norme, chiedendo espressamente ch’esse rispettino i diritti statutari e costituzionali delle organizzazioni religiose.
Tutto qui? Nient’affatto. Che Biden voglia imperniare anche la sua prossima campagna elettorale sulla promozione dell’aborto, come già da noi denunciato la scorsa settimana, lo conferma anche la strategia, che sta seguendo: il mese scorso, ad esempio, la sua amministrazione ha emesso un mandato, che, storpiando vergognosamente a proprio uso e consumo una legge che di per sé tutela le donne gravide, cerca di costringere tutti i datori di lavoro americani a finanziare le pratiche abortive, anche qualora ciò contrastasse con le loro convinzioni etiche o religiose. Immediata la reazione delle associazioni pro-life, che hanno subito annunciato battaglia.
La proposta normativa, elaborata dalla Commissione statunitense per le Pari Opportunità sul Lavoro, tradisce lo spirito della legge cui fa riferimento ovvero il Pregnant Workers Fairness Act, votata a suo tempo in modo bipartisan proprio perché impone alle imprese con più di 15 dipendenti di «accogliere ragionevolmente» la «gravidanza, il parto o le condizioni mediche correlate» di una propria lavoratrice. Ebbene, proprio in queste «condizioni mediche correlate» oggi l’amministrazione Biden vorrebbe trovare il vulnus, il cavallo di Troia per includere pretestuosamente in esse anche l’aborto, snaturando completamente e deliberatamente lo spirito originario della norma, trasformata così nel proprio opposto.
Secondo quanto dichiarato alla stampa da Julie Marie Blake, direttore generale di Alliance Defending Freedom, «la proposta illegale dell’amministrazione Biden viola le leggi statali, che proteggono i non-nati e le convinzioni religiose e pro-life dei datori di lavoro. L’amministrazione Biden non ha alcuna autorità legale, per inserire un mandato abortivo in una legge a favore della vita e delle donne». Già, non ha né autorità, né potere per farlo. Ma se li arroga. Chissà che gli americani non se ne ricordino, al momento dell’imminente voto.